Il percorso virtuoso di sviluppo che il Sud non riesce a imboccare

Il premier Conte è intervenuto varie volte dopo l’avvio del nuovo governo per ribadire che il rilancio delle regioni del Mezzogiorno è uno degli impegni principali del suo programma. Un impegno non nuovo nella storia della nostra Repubblica. La novità vera sarebbe vedere la frattura finalmente ridursi. Ma non basta l’azione di Governo. L’iniziativa recente più interessante a questo proposito è il Manifesto per un nuovo Sud in una nuova Europa, presentato da Claudio De Vincenti, con il sostegno di Confindustria e della Conferenza dei Rettori.

I dati continuano, del resto, a ritrarre l’Italia come uno dei paesi dell’Unione europea con maggiori divari territoriali rispetto ai livelli economici e sociali e alle dinamiche demografiche, ma anche uno di quelli che in questo secolo meno sono riusciti a ridurre tali differenze. La forza della crescita espressa nel primo tratto di questo secolo stenta a rivelarsi in grado di dar la spinta che servirebbe per un processo solido e continuo di convergenza.

I dati più recenti non sono incoraggianti, come mostrano anche le anticipazioni del Rapporto Svimez 2019. Se l’Europa è in difficoltà a crescere, l’Italia è quasi in stagnazione e il Sud torna al segno negativo senza aver ancora recuperato i livelli pre-crisi. Insomma il quadro ben noto di ciò che rende debole l’Italia nel confronto con gli altri paesi sviluppati, rende debole al quadrato il Sud.

I punti critici continuano ad essere il lavoro e le diseguaglianze sociali, con fragilità che partono già dalla formazione. Pesa, in modo particolare, la cronica debolezza della dotazione infrastrutturale e della qualità dei servizi. Il Rapporto Svimez del 2018 evidenziava che in tale area del Paese: “sono presenti livelli qualitativamente inferiori, dai trasporti, alle mense scolastiche, ai materiali didattici. Sul tasso di apprendimento al Sud pesa anche il contesto economico-sociale e territoriale: la disoccupazione, la povertà diffusa, l’esclusione sociale, la minore istruzione delle famiglie di provenienza e, soprattutto, la mancanza di servizi pubblici efficienti influenzano i percorsi scolastici e l’apprendimento”.

Anche il Rapporto BES 2018 metteva in luce come nelle dinamiche più recenti lo svantaggio del Mezzogiorno si fosse acuito sull’indice composito del dominio “Istruzione e formazione”, con una variazione rispetto all’anno precedente di +0,7 punti al Nord e -2,8 punti nel Mezzogiorno. Particolarmente accentuata è poi la variabilità territoriale dell’incidenza dei NEET (i giovani che non studiano e non lavorano). Le province di Caltanissetta, Crotone e Palermo presentano livelli che superano il 40%, oltre il triplo rispetto a Treviso, Modena e Lecco. In Sicilia il dato del 2018 è addirittura peggiorato rispetto ai due anni precedenti.

Nella fascia 25-34 il tasso di occupazione femminile è fermo al 35% nel Mezzogiorno, circa la metà rispetto alle coetanee del Nord.

Ma sono soprattutto i dati demografici a rivelare che con il XXI secolo la questione meridionale è entrata in una fase nuova. Lungo tutto il secolo precedente la popolazione giovanile, nonostante i flussi di uscita, è sempre rimasta consistente. Questo ha consentito al Mezzogiorno di mantenere, nonostante squilibri e inefficienze, una propria vitalità culturale, sociale ed economica. Ma ora questa esuberanza è in esaurimento. Nel primo decennio di questo secolo la fecondità del Sud è scivolata sotto quella del Nord, con crescente impatto sulla struttura per età della popolazione. Allo stesso modo la prolungata permanenza nella casa dei genitori, legata in passato maggiormente a fattori culturali e caratterizzante soprattutto le regioni del Nord, con l’entrata in questo secolo ha visto aumentare i motivi economici ed è diventata prevalente nel Mezzogiorno. La scelta oggi di molti giovani meridionali è tra rimanere a lungo a vivere con i genitori o andarsene molto lontano dove trovare migliori opportunità.

Questi mutamenti inediti suggeriscono che il problema del Sud non è il suo immobilismo, ma semmai il fatto di non aver (ancora) trovato un proprio percorso virtuoso di sviluppo. Muta per difendersi dalle grandi forze della modernizzazione (diminuendo ad esempio le nascite) anziché coglierne le opportunità (attraverso la promozione del ruolo femminile e una propria risposta alle esigenze di conciliazione tra lavoro e famiglia). Lo stesso vale per le nuove generazioni, che si trovano a difendersi da ciò che manca delle sicurezze del Novecento e di quanto c’è al Nord, anziché diventare la punta avanzata di come trasformare in valore in questo secolo le specificità del Sud. Se quello che manca è la crescita che c’è altrove, rimarrà più facile per i giovani continuare ad andare dove tale crescita c’è già. E’ invece poter essere parte attiva di un modello sociale e di sviluppo che fa interagire positivamente le trasformazioni in atto con le caratteristiche originali del proprio territorio che li può convincere a rimanere e anche a tornare.

Il terremoto demografico in corso in Italia

In Italia è in corso un terremoto demografico. Non ce ne preoccupiamo troppo perché la struttura demografica di una popolazione muta lentamente, ma gli effetti sono poi implacabili. Il possibile crollo o meno di un edificio a seguito di un terremoto dipende dall’entità dei danni sulle strutture portanti. Nel caso di una popolazione il pilastro portante è costituito dalle età centrali adulte, quelle che maggiormente contribuiscono alla crescita economica e al finanziamento del sistema di welfare pubblico.

A mettere a repentaglio questa struttura non è l’aumento della longevità, che consente alle nuove generazioni di spingersi sempre più in avanti rispetto alle fasi della vita. La sfida che essa pone è, semmai, quella di aggiungere qualità agli anni in più guadagnati. Se, infatti, la popolazione nelle età centrali lavorative rimane consistente e migliorano le opportunità di lunga vita attiva, la longevità oltre che essere un processo positivo è anche sostenibile. Ciò che produce squilibri nella popolazione è invece la riduzione del contingente iniziale di ciascuna nuova generazione, ovvero la diminuzione delle nascite. La denatalità italiana ha prima ridotto la popolazione infantile, poi quella giovanile e ora sta iniziando a erodere sempre più anche le età adulte.

Se quindi finora il processo di invecchiamento della popolazione è stato sorretto da una presenza solida di popolazione nell’asse portante dell’età attiva, nei prossimi anni non sarà più così. In particolare le classi centrali lavorative andranno progressivamente a indebolirsi come mai in passato. Tutto questo avverrà più in Italia che altrove in Europa perché, a parità di longevità (sui livelli dei paesi più avanzati), il crollo delle nascite è stato da noi più rilevante e persistente.

Il rischio è quello di veder indebolire progressivamente il pilastro produttivo del Paese per il combinarsi di un basso peso demografico con una bassa partecipazione effettiva al mercato del lavoro. Attualmente la fascia d’età centrale della vita attiva del Paese è quella tra i 40 e i 44 anni. Tra dieci anni si sposteranno in tale posizione cruciale gli attuali 30-34enni che risultano essere oltre un milione in meno. Quest’ultima classe di età presenta però anche un basso tasso di occupazione (68,4%, dato riferito al 2018), sia rispetto agli altri paesi europei (la media Ue-28 è pari all’80,0%), sia rispetto alle generazioni precedenti alla stessa età. In particolare, gli attuali 40-44enni italiani presentavano un tasso di occupazione pari a 74,8% dieci anni fa (quanto avevano 30-34 anni).

Il campanello d’allarme – come mostra dettagliatamente il report di Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo – non viene suonato solo dalle condizioni oggettive (l’Italia presenta anche una delle più basse percentuali di laureati e più alta incidenza di Neet in Europa nella fascia 30-34 anni), ma anche dalla percezione che i giovani-adulti stessi hanno della loro condizioni e delle loro prospettive. Oltre uno su quattro teme di trovarsi senza un lavoro quando avrà 45 anni. Spiccata è però anche la differenza per titolo di studio, in particolare il rischio percepito di doversi rassegnare a non avere una occupazione al centro della vita adulta è tre volte tanto per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo rispetto ai laureati.

Da qui bisogna allora ripartire, ovvero da percorsi solidi di formazione e da efficienti servizi, alla pari delle migliori esperienze degli altri paesi avanzati, che consentano alle persone di riqualificarsi e reinserirsi attivamente nel mondo del lavoro. Ed è soprattutto tempo di prendere consapevolezza del fatto che il problema non è tanto il lavoro che manca ai giovani, ma la presenza qualificata delle nuove generazioni che sta diventando sempre più scarsa nei nostri processi di produzione di ricchezza e benessere.

Fare nascere i figli, e fare loro spazio. Perché partire non sia obbligo

La combinazione della lettura del recente “Atlante sull’infanzia a rischio” di Save the Children e del “Rapporto italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes, presentato ieri, fornisce un ritratto implacabile del disinvestimento quantitativo e qualitativo dell’Italia sulle nuove generazioni. Da troppi anni ci ritroviamo ad aggiornare in negativo i dati sulle nascite, sulla povertà educativa e sul saldo negativo dei diplomati e laureati verso l’estero.

Il rischio è che il nostro Paese non riesca più a invertire la tendenza, avvitandosi in un circolo vizioso di decremento delle nuove generazioni e di deterioramento delle condizioni che consentono a esse di dare e ottenere il meglio nei processi di produzione di nuovo benessere in questo secolo. Una spirale negativa accentuata, appunto, dal flusso crescente di giovani preparati e intraprendenti che vanno ad arruolarsi nella forza lavoro di altri Paesi, rafforzando così il loro vantaggio competitivo a scapito dell’Italia. Spesso con molto rammarico dei giovani stessi che non capiscono perché quello che gli viene riconosciuto all’estero e che riescono a realizzare con successo, fosse tanto complicato da ottenere nel loro territorio di origine. Eppure, come mostrano i dati del “Laboratorio futuro” dell’Istituto Toniolo, l’Italia nei prossimi dieci anni avrà grande necessità di rafforzare i percorsi professionali delle nuove generazioni per rispondere agli squilibri demografici che stanno indebolendo il centro della vita lavorativa.

Per farlo serve un ‘progetto Paese’ in grado di mettere in relazione positiva le specificità dell’Italia con i processi di cambiamento del Ventunesimo secolo, assegnando alle nuove generazioni, adeguatamente rafforzate e preparate, un ruolo centrale nel realizzarlo. E invece continuiamo a destinare meno della media europea alle politiche familiari, cosicché ci troviamo ad avere uno dei tassi di fecondità tra i più bassi del continente; a spendere di meno in formazione, cosicché ci troviamo con alta dispersione scolastica e bassa quota di laureati; a investire di meno in welfare attivo, ricerca e sviluppo, cosicché ci troviamo con più alta incidenza di Neet (gli under 35 che non studiano e non lavorano) e con largo sottoutilizzo del capitale umano dei giovani più qua-lificati (come documentato nel Rapporto annuale 2019 dell’Istat).

Tutto questo, oltre a indebolire la crescita del Paese, alimenta anche le diseguaglianze sociali, perché condiziona la possibilità di successo formativo e professionale al supporto della famiglia di origine. Di fatto, i giovani laureati con solide risorse socioculturali di partenza sono coloro che più possono scegliere se rimanere in Italia o andare all’estero per una esperienza temporanea che può poi diventare definitiva. Chi invece ha alto titolo di studio, ma scarso sostegno familiare, in un contesto di meccanismi inceppati di mobilità sociale, si trova a dover utilizzare la mobilità territoriale per necessità, ovvero per non essere intrappolato in un lavoro di basso profilo professionale. Chi invece ha basso titolo di studio si vede spesso preclusa la stessa possibilità di usare l’opzione estero o, nel caso, a rischiare più facilmente di trovarsi a fallire lontano da casa. Per costruire un futuro migliore è allora necessario tornare a prendersi cura delle scelte del presente, quelle che danno spazio al nuovo che nasce, che cresce e si forma in maniera solida, che è incoraggiato a portare la sua novità nella società e nel mondo del lavoro. Se le scelte che crescono sono quelle del rinunciare (ad avere figli) e dell’andarsene (dove vengono offerte migliori prospettive) non significa che l’Italia abbia smesso di essere un terreno fertile, ma che si è indebolito l’impegno collettivo a coltivarlo. È da questo impegno allora che dovremmo tutti assieme ripartire, per evitare che sempre più giovani decidano di partire.

Sanare la frattura tra generazioni con ampio accesso alla formazione

L’Italia è entrata in questo secolo attraversata da profonde e ben riconoscibili fratture che non si sono ridotte nel corso di questi due primi decenni, con la conseguenza di accentuare una fragilità strutturale che rischia di compromettere tutto il percorso successivo.

Come ampiamente documentato in molte analisi, gli indicatori economici e sociali del Sud rimangono lontani da quelli del Nord e dalla media europea, senza l’evidenza di un chiaro e solido processo di convergenza. Donne e giovani continuano a presentare livelli di partecipazione al mercato del lavoro molto più bassi rispetto agli uomini adulti. Chi nasce in famiglie con status sociale basso ha molte meno possibilità di raggiungere alti livelli di istruzione e di accedere a impieghi ben remunerati. Gli immigrati residenti rimangono vincolati a un rischio di povertà notevolmente più alto, anche a parità di altre caratteristiche, rispetto alla popolazione autoctona.

Il dibattito pubblico su questi divari, visti da sinistra o in ottica liberale, oscilla tra i due estremi delle diseguaglianze da ridurre e del merito da promuovere. Entrambe queste due posizioni, se declinate in senso stretto, risultano però parziali. La riduzione, in sé, delle diseguaglianze non necessariamente migliora le condizioni di sviluppo del Paese. D’altro canto un’accentuazione della spinta meritocratica senza consentire pari opportunità in partenza, non aiuta a ridurre le diseguaglianze ma nemmeno migliora l’efficienza complessiva del sistema. Ad esempio, i bambini più aiutati a casa ottengono voti più elevati in classe anche nel caso di minori capacità rispetto a chi non ha supporto.

Il maggior contributo alla riduzione delle fratture piò arrivare, allora, dall’investimento collettivo nei contesti in cui la riduzione delle diseguaglianze fornisce energia ai processi di sviluppo del Paese. Questo consente, metaforicamente, di ottenere i maggiori frutti dal terreno potenzialmente più fertile ma lasciato colpevolmente incolto (molto più che negli altri paesi con cui competiamo), per poi progressivamente intervenire sui terreni con rendimenti decrescenti. Questo permette di ottenere in partenza i migliori risultati in termini sia di riduzione delle diseguaglianze sia di crescita, con una spinta che poi aiuta a rafforzare il welfare anche sulle voci meno attive. L’indicatore principale a cui dovremmo allora guardare, per politiche che consentano di superare le grandi fratture italiane e rinsaldare il processo di crescita, è quello che misura quanto chi parte da posizioni più svantaggiate riesce a migliorare la propria condizione.

Una delle più gravi fratture di cui soffre il nostro paese – una di quelle inasprite di più nel passato recente, che attualmente risultano tra le più accentuate anche nel confronto con gli altri paesi, con più gravi implicazioni sul futuro – è quella generazionale. Chi è giovane oggi in Italia si trova con un livello del debito pubblico lievitato enormemente; in una economia con i più bassi tassi di crescita dal dopoguerra; con più ridotto peso demografico; con mobilità sociale inceppata (con conseguenti minori possibilità di migliorare propria situazione). Eppure da dove può ritrovare il Paese possibilità di crescere e ridurre il debito pubblico se non dal pieno contributo attivo delle nuove generazioni?

E’ bene aver chiaro i dati della disastrosa situazione attuale. Dati che aiutano anche a capire che la questione è molto meno da ricondurre a quanto le generazioni più mature hanno (in termini di occupazione, reddito e trattamento pensionistico) e molto più a quanto alle nuove generazioni manca. Con aiuto che arriva, di fatto, solo dai propri genitori, ma risulta inefficiente nell’allocazione delle risorse per lo sviluppo, andando anche ad inasprire le diseguaglianze di partenza. Un processo di rimessa in discussione di posizioni e diritti acquisiti funziona solo se alla base c’è un patto di investimento collettivo sulla crescita comune, ovvero un patto sociale e generazionale che porta le risorse pubbliche a convergere verso gli strumenti che trasformano i giovani in parte attiva e qualificata nei processi di sviluppo competitivo del Paese.

I dati allora ci dicono che la spesa per pensioni e sanità pubblica sul Pil non è maggiore rispetto alla media europea, ma quella su formazione, politiche attive, ricerca e sviluppo è nel complesso da troppo tempo sensibilmente inferiore. I tassi dell’occupazione degli uomini adulti italiani non sono più alti rispetto alle altre economie avanzate, ma quelli in età giovanile sono impietosamente tra i più bassi (oltre 20 punti sotto la media Ue in età 25-29). Il rischio di povertà assoluta delle famiglie con membro di riferimento anziano è consolante che sia inferiore al 5%, ma è inaccettabile che sia oltre il doppio quello con persona di riferimento under 35. Così, di fatto, si difende il benessere passato acquisito senza investire sulla produzione di nuovo benessere. Ed è su questo nodo che devono intervenire le scelte di una politica che non guarda solo al consenso immediato.

La frattura generazionale ha poi all’interno, come abbiamo detto, anche una frattura sociale. La combinazione tra tali due fratture costituisce la principale debolezza strutturale dell’impianto che dovrebbe sostenere la crescita solida del paese, andando inoltre ad alimentare tensioni sociali, populismi e instabilità politica.

Non si può quindi che ripartire da un accesso solido e ampio alla formazione del capitale umano, agganciato a un miglioramento delle aspettative di sua valorizzazione piena, in un paese che lo considera come il carburante più prezioso per un rilancio delle sue prospettive di sviluppo presente e futuro. Questo significa partire dal prendere atto che se i livelli di formazione terziaria sono così bassi in Italia è perché mancano all’appello soprattutto i figli dei genitori delle classi sociali più basse. E’ cruciale allora mettere tutti nelle condizioni di effettiva possibilità di accesso alle migliori posizioni, a partire da chi è rimasto più indietro, in funzione delle proprie doti (e non della dotazione iniziale) e delle condizioni del mercato (ma contribuendo ad espanderlo).

La contrapposizione tra equità e merito va superata mettendo al centro la dimensione della costruzione di benessere collettivo, mirando prima di tutto a ridurre gli inaccettabili divari di opportunità nella partecipazione ai processi di crescita del Paese. E’ dentro a tali divari che si trova oggi il terreno più fertile da coltivare.

Perché è giusto il diritto di voto ai sedicenni

Qualche giorno prima che venisse rilanciata dal mondo politico la proposta di abbassare di due anni l’età minima per il voto, avevamo sottolineato su queste pagine l’importanza di dar più peso alle ragioni del futuro. Ricordando, in particolare, che «mentre rimane irrisolta la questione di come tener conto dei diritti delle generazioni future (quelle non ancora nate), e mentre continuiamo ad escludere dai referendum e dalle consultazioni elettorali gli under 18 (i coetanei di Greta Thunberg), ci troviamo ad assistere anche alla riduzione stessa dei giovani con diritto di voto». Non possiamo quindi che registrare con favore l’ampia convergenza delle forze politiche verso l’inclusione di sedicenni e diciasettenni nell’elettorato attivo.

Va precisato che tale operazione, in sé, ha costo zero per le casse dello Stato. Chi non ha ancora diciotto anni non potrebbe in ogni caso essere eletto. Inoltre si potrebbe prevedere tale estensione solo per le amministrative. Quest’ultima scelta da un lato risponderebbe alle obiezioni di chi non ritiene che i sedicenni siano abbastanza maturi per occuparsi della complessa politica nazionale, d’altro lato è coerente con il principio no taxation without representation: dato infatti che i sedicenni possono avere un contratto di lavoro e pagare le tasse, è del tutto giusto riconoscere che possano dire la loro su chi utilizzerà le risorse pubbliche per migliorare il quartiere e la città in cui vivono.

Rafforzare il ruolo delle nuove generazioni nelle scelte collettive risponde inoltre, in questo momento storico, a due esigenze. La prima è quella di compensare gli effetti della loro riduzione di consistenza demografica sul peso elettorale, a fronte dell’aumento della popolazione anziana. Un ottantenne può certo nel proprio voto responsabilmente premiare chi investe più sulla produzione di benessere futuro che a protezione delle rendite del passato, ma è anche giusto ritenere che chi avrà più da perdere e da guadagnare sulle conseguenze di medio e lungo periodo delle scelte collettive, ovvero le generazioni più giovani, possa prendersi la maggiore responsabilità nel determinarle. La seconda esigenza risponde al fatto che l’impatto sul futuro delle scelte presenti è maggiore oggi che in passato. Basti pensare alle decisioni che riguardano l’enorme debito pubblico cumulato, l’impatto ambientale, l’innovazione tecnologica, la combinazione tra contratti di lavoro, continuità di reddito e condizioni per una pensione dignitosa.

La riduzione quantitativa delle nuove generazioni, maggiore da noi per la persistente denatalità, si combina poi con la presenza di soglie anagrafiche tra le più alte nelle democrazie occidentali sull’elettorato attivo e passivo. Bisogna avere almeno 25 anni per essere eletti alla Camera e la stessa età per votare al Senato, nel quale chi non ha compiuto 40 anni non può entrare. Dato che le leggi devono passare anche attraverso l’approvazione del Senato, gli under 40 sono di fatto esclusi dalle decisioni finali sulle scelte del Paese.

Non estendere il diritto di voto ai sedicenni e mantenere tali soglie non significa lasciare le cose come stanno, ma accettare il fatto che progressivamente si ridimensioni il peso elettorale dei giovani. In Italia ci sono circa 1 milione e 100 mila sedicenni e diciasettenni. Dal 2000 a oggi gli over 65 sono aumentati di oltre 3 milioni e, prima del 2050, cresceranno di oltre 6 milioni.