Un governo che restituisca futuro in Italia ai giovani

Nel discorso al Senato di chiusura dell’esperienza del primo Governo Conte, il premier dimissionario ha lanciato uno sguardo in avanti sugli impegni che dovrebbe assumersi “una politica con la P maiuscola”. Al primo punto ha posto il “lavorare per offrire ai giovani giuste opportunità di vita personale e professionale: ogni giovane che parte e non torna è una sconfitta per il futuro del Paese”. Nel discorso di accettazione del mandato per la formazione di un Governo Conte bis, il premier incaricato ha poi ribadito tra le sfide principali quella di rendere l’Italia “un Paese che non lasci che le proprie energie giovanili si disperdano fuori dei confini nazionali”, ma “sia anzi fortemente attraente per i giovani che risiedono all’estero”.

La dispersione del capitale umano delle nuove generazioni viene evidentemente considerata da Giuseppe Conte uno dei segnali più preoccupanti del declino del Paese. Ne è infatti allo stesso tempo causa e conseguenza. Meno il paese cresce e offre opportunità, più i giovani ben preparati e dinamici se ne vanno. Ma più ci si priva delle “energie giovanili”, meno spinta per crescere ha il Paese.

Capacità e competenze delle nuove generazioni sono considerate la risorsa principale per produrre crescita ed innovazione nelle economie mature del XXI secolo. In Italia questa risorsa è scarsa per l’accentuata denatalità, per la più bassa incidenza di laureati rispetto alle altre economie avanzate, ma anche per la maggior facilità con cui la sprechiamo e disperdiamo. Deteniamo in Europa, del resto, anche il record di Neet, ovvero di under 35 che dopo aver concluso gli studi non riescono ad entrare saldamente nel mondo del lavoro.

Per usare una metafora sportiva è come se in una partita della nazionale noi relegassimo i giovani in panchina o li regalassimo alle altre squadre concorrenti. Nella costruzione di squadre vincenti per le sfide di questo secolo è in atto una guerra dei talenti, intesi nell’accezione più ampia, che riguarda non solo le aziende ma i “sistemi paese” più in generale. Tale guerra, ci dicono le sottrazioni annuali di laureati e dottori di ricerca, l’Italia la sta perdendo rischiando di scivolare sempre più ai margini dei processi più solidi e virtuosi di crescita dei prossimi decenni. I contesti che si collocano al centro di tale processi sono, invece, proprio quelli che offrono opportunità alle nuove generazioni. Non è un caso che in questo secolo abbiano ripreso consistenza i flussi di uscita dal Sud verso il Nord Italia e dall’Italia verso l’estero. Giovani che non partono con la valigia di cartone, ma sempre più con un tablet pieno di idee, alte aspirazioni e voglia di eccellere in contesti aperti e stimolanti. Partono per andare dove le cose accadono, per farsi parte attiva del mondo che cambia. Ciò è del tutto naturale che avvenga. Il problema non è la mobilità dei giovani in sé, ma i motivi che rendono l’Italia un polo sempre meno attrattivo all’interno dei processi che – attraverso le energie e le intelligenze delle nuove generazioni – forniscono spinta e direzione alla produzione di nuovo benessere. Una delle eccezioni più rilevanti è Milano che, in controtendenza con il resto del paese, ha visto negli ultimi dieci anni la fascia tra i 20 e i 29 anni aumentare di circa il 25 percento.

L’Istat misura il fenomeno della mobilità internazionale, da e per l’Italia, attraverso l’iscrizione e la cancellazione dall’anagrafe. Tale criterio porta a una sottostima rilevante, come documentato in varie ricerche, perché molti fuoriusciti mantengono, soprattutto nei primi anni, la residenza in Italia finché la permanenza all’estero non è consolidata e si ha necessità di formalizzarla. In ogni caso il bollettino di guerra è impressionante. Nel Rapporto annuale Istat del 2019 rivela che nell’ultimo decennio “le cancellazioni dall’anagrafe per l’estero sono aumentate in maniera marcata, passando da 62 mila a 160 mila”. Per il Mezzogiorno si aggiunge inoltre il flusso verso le regioni italiane del Centro-nord: a spostarsi sono stati circa 483 mila giovani di 20-34 anni, di cui oltre l’80 percento con istruzione medio-alta.

Generare opportunità all’altezza delle migliori aspirazioni dei giovani è l’unica vera risposta al rischio di “degiovanimento” cronico del paese, che alla persistente denatalità somma la continua emorragia verso l’estero. Cosa fare dunque? Per le nuove generazioni più che le condizioni attuali offerte da un territorio (o una azienda), conta il sentirsi parte attiva di un processo credibile di miglioramento. Anche nel Sud Italia molte aree possono diventare attrattive se in grado di coniugare le specificità locali con la valorizzazione delle competenze dei giovani, la loro spinta all’innovazione con l’apertura al mercato internazionale. In questo modo si favorirebbe sia la scelta di restare sul territorio, sia quella di tornare dopo un periodo all’estero, portando come arricchimento il valore aggiunto di tale esperienza. Un governo “per” l’Italia dovrebbe partire, con scelte nette e coraggiose, proprio da qui.

Il futuro va costruito puntando sui giovani

La politica è esercizio di potere ma prima ancora è responsabilità, come ha recentemente ricordato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Una responsabilità nei confronti di tutti cittadini, ma ancor più verso le nuove generazioni. Chi è al Governo prende decisioni dalle quali dipende il benessere di tutto il paese, con ricadute non solo sul presente ma anche sul futuro. Più che impegnata a far crescere il benessere la politica italiana sembra però sempre più accontentarsi di cavalcare il malessere, più spendibile a fini di immediato consenso.

I bisogni delle nuove generazioni e gli errori della politica

Se c’è un bene che manca più all’Italia di altri paesi sono i giovani. Se c’è un bene che l’Italia valorizza meno rispetto alle altre economie avanzate sono le nuove generazioni.

Eppure un paese che voglia cogliere positivamente la sfida della longevità e produrre benessere ha bisogno di una qualificata presenza delle nuove generazioni nei propri processi di cambiamento e sviluppo. A livello collettivo, un’adeguata consistenza della popolazione giovane-adulta (con buoni tassi di occupazione e livelli di produttività), consente al paese di crescere, di ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL, oltre che di mantenere la sostenibilità del sistema di welfare in un paese che invecchia. A livello individuale, buona formazione e inserimento nei tempi e modi adeguati nel mondo del lavoro consentono un futuro previdenziale, di salute e benessere personale più solido.

Quelle scelte tra figli e lavoro che frenano la crescita italiana

Una delle sfide principali che l’Italia deve affrontare nei prossimi decenni è crescere – in termini di ricchezza economica e benessere sociale – in una fase di riduzione senza precedenti della popolazione in età lavorativa. Si potrà vincere tale sfida non solo attraverso l’estensione in verticale della vita lavorativa ma anche migliorando in orizzontale le opportunità di effettiva partecipazione di tutti alla vita attiva del paese.

Il sistema si salva con politiche su immigrazione e natalità

Dal punto di vista demografico, ma non solo, possiamo dividere l’intero pianeta in “partes tres”. La prima parte fino alla metà del secolo scorso coincideva con l’intero mondo, ora raccoglie circa metà degli stati, ma è destinata a trovarsi praticamente vuota alla fine di questo secolo. E’ composta dai paesi con una fecondità superiore ai due figli in media per donna.