Topic: popolazione, risorse e sviluppo

Crisi demografica: rompere la spirale negativa del degiovanimento per tornare a crescere

In tutte le economie mature avanzate, come conseguenza della transizione demografica, la consistenza delle classi centrali lavorative sta andando progressivamente a indebolirsi, come mai in passato. Si tratta di una fase del tutto inedita e con forti implicazioni sulle condizioni di sviluppo, ma con incidenza diversa nei vari paesi.

In Italia, a fronte della continua crescita della componente anziana, il crollo della forza lavoro potenziale è tra quelli più marcati e con conseguenze economiche e sociali più problematiche. Se si lasciano sostanzialmente inalterate le condizioni del sistema Paese, alto è il rischio di scivolare irrimediabilmente in un circolo vizioso di basso sviluppo, bassa disponibilità di giovani qualificati, bassa innovazione, bassa espansione di nuove opportunità di lavoro e bassa crescita competitiva delle aziende. È, del resto, sempre più evidente la difficoltà delle imprese di alimentare e rigenerare i propri processi di crescita facendo leva sulle energie e le intelligenze delle nuove generazioni.

L’attenzione verso la crescita della fascia anziana porta a cercare soluzioni su come valorizzare quanto accumulato in passato dalle generazioni più mature, sia in termini di esperienza nel mondo del lavoro – nel contesto delle pratiche aziendali di age management – sia di ricchezza disponibile – attraverso la cosiddetta silver economy.

Ma le trasformazioni demografiche in atto ancor più pongono al centro la questione delle condizioni per generare nuova ricchezza e nuovo benessere. Per tutta la storia dell’umanità,  infatti, il funzionamento della società e dell’economia ha avuto come base solida una larga presenza di giovani. Anche la ricostruzione e la fase di esuberante sviluppo nel secondo dopoguerra hanno potuto contare sulla spinta fornita da tale base. Al censimento del 1951 gli under 30 erano oltre la metà della popolazione, oggi sono poco più di un quarto.

La domanda centrale da porsi è quindi: quali politiche servono per non rendere tali squilibri insostenibili e poter continuare a generare nuovo benessere in condizioni del tutto diverse da quelle che hanno consentito la crescita passata?

L’Italia, in particolare, è entrata in una spirale di degiovanimento, sia quantitativo che qualitativo, che costituisce un paradosso: abbiamo meno giovani come conseguenza della denatalità, ma investiamo persistentemente anche meno sugli strumenti che li rendono autonomi, attivi, competenti e intraprendenti nella società e nel mondo del lavoro rispetto al resto d’Europa (di conseguenza abbiamo anche il record di NEET, gli under 35 che non sono in formazione e non lavorano). Detto in altre parole, nel corso di questo secolo siamo stati tra i paesi più avanzati che più si sono distinti nell’indebolire la presenza quantitativa dei giovani, ma allo stesso tempo anche tra i meno capaci nel trasformare il potenziale delle nuove generazioni in produzione di valore collettivo (economico e sociale).

Va, quindi, favorita la possibilità di una nuova fase di sviluppo dopo la frenata causata dalla pandemia. Tale sviluppo deve essere coerente con le opportunità della transizione verde e digitale. Deve avere come motore il lavoro, a tutti i livelli, ma con particolare attenzione alle competenze che possono portare i nuovi entranti. Deve, però, essere anche coerente con i mutamenti di senso e valore assegnato al lavoro dalle nuove generazioni.

L’incontro in Italia tra domanda e offerta di lavoro soffre della carenza di un sistema di orientamento che aiuti i giovani a indirizzare la propria formazione verso competenze utili per entrare e crescere nel mondo del lavoro in coerenza con le proprie aspirazioni. Soffre anche della carenza di sistemi esperti di matching tra domanda e offerta che aiuti competenze richieste e offerte a trovare il loro punto di incontro più elevato per la valorizzazione del capitale umano, da un lato, e le esigenze di crescita competitiva di aziende e organizzazioni, dall’altro.

È altresì vitale un salto evolutivo qualitativo di tali sistemi. Ad essere allineate non sono solo le competenze ma anche le aspettative dei nuovi entranti con quello che il mercato è in grado di offrire oggi e domani. Servono operatori capaci di accompagnare il percorso di transizione scuola-lavoro aiutando i giovani a precisare meglio desideri, intenzioni, obiettivi professionali e sintonizzarli con l’evoluzione del mondo del lavoro e le opportunità del territorio; aiutandoli anche a capire come si valuta un’offerta di lavoro, cosa è realistico aspettarsi, cosa chiedere e come poi far evolvere in modo strategico il proprio percorso di carriera. Senza queste coordinate rimane elevata la diffidenza e prevale l’atteggiamento difensivo: pur essendo disposti a farsi pienamente coinvolgere da un lavoro che li appassiona, prevale il timore di essere sfruttati che porta a porre vincoli su tempi e modalità di impiego.

Il sistema produttivo italiano si accorge della mancanza di manodopera qualificata quando deve assumere, mentre molto meno si fa, rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo, per preparare per tempo le competenze necessarie attraverso un’interazione continua tra aziende, scuole e servizi di politiche attive sul territorio. Interagire con i giovani mentre sono ancora nelle ultime classi della secondaria consente anche di iniziare a prendere le misure reciproche, a capire come cambia il modo di pensare al lavoro e quali sono le modalità di apprendimento e di impegno attivo che li ingaggiano maggiormente. L’incontro tra domanda e offerta non funziona se si riduce al mero colloquio di lavoro, a cui si arriva spesso in modo improvvisato o attraverso canali informali, ma va inteso come parte del processo di transizione scuola-lavoro in cui il colloquio è una tappa, non un appuntamento al buio (in cui nuove generazioni e datori di lavoro si scrutano come sconosciuti).

Formare bene i giovani, inserirli in modo efficiente nel mondo del lavoro, valorizzarne al meglio il contributo qualificato nelle aziende e nelle organizzazioni, consente di rispondere alla riduzione quantitativa dei nuovi entranti con un rafforzamento qualitativo della loro presenza nei processi che alimentano sviluppo economico, innovazione sociale, competitività internazionale. Frenerebbe, inoltre, la loro fuga verso l’estero e li metterebbe anche nelle condizioni di realizzare in modo più solido il loro progetti di vita, con conseguenze positive sulla formazione di nuovi nuclei familiari e sulla natalità.

Calo delle domande di servizio civile? Non basta renderlo accessibile a tutti

In Italia tutti sanno bene cosa vogliono dai giovani, cosa si aspettano da loro, ma molto debole è lo sforzo di capire cosa desiderano, cosa vogliono essere e dove vogliono andare.

  • I genitori italiani, in generale, vogliono che realizzino gli obiettivi che essi considerano importanti. Gli insegnanti vogliono che stiano attenti in classe e ripetano in modo ordinato contenuti predefiniti.
  • I datori di lavoro vogliono trovarli subito pronti con le competenze che servono e con disponibilità ad adattarsi alle necessità dell’azienda.
  • I partiti vogliono il loro voto alle elezioni (e poi non sentirne più parlare fino alle successive).
  • Considerazioni simili potremmo fare per la Chiesa, per i sindacati, per il mondo associativo.

Ovviamente non “tutti” ma senz’altro “troppi” rientrano in questo ritratto. Quello che, in ogni caso, sta diventando sempre più chiaro è che tutti questi mondi stanno sperimentando una crescente difficoltà ad ottenere dai giovani ciò che si vorrebbe e ci si aspetta da loro. Il problema è forse dovuto al fatto che tutti (troppi) partono da “ciò che ad essi serve che i giovani siano” anziché da “ciò che i giovani sono e vogliono diventare”.

Cosa fare? Non ci resta che piangere? Nel film che prende come titolo tale sconsolata espressione, Benigni e Troisi vengono proiettati inspiegabilmente in un tempo in cui non si ritrovano, che non riconoscono, che li costringe ad adattarsi e li imbriglia in ruoli nei quali si sentono inadeguati. Sono prigionieri in un’Italia del passato senza la capacità di incidere sugli eventi che accadono. Una delle scene più celebri è quella del passaggio del confine della Signoria fiorentina in cui il gabelliere, senza nemmeno guardare negli occhi chi transita e capire il senso di ciò che accade, automaticamente ripete “Chi siete? Cosa fate? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!”.

Possiamo considerarla una rappresentazione del modo in cui la società italiana si rivolge ai giovani: carenza di attenzione autentica e una forte richiesta a conformarsi a regole predefinite (di cui è sempre meno chiaro il senso) e a dare ciò che è chiesto (di cui è sempre meno chiaro il valore), in una realtà sempre più complessa e con coordinate di riferimento in continuo mutamento.

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Se non si cambia approccio, pensare di ottenere un maggior coinvolgimento e ruolo attivo delle nuove generazioni semplicemente rafforzando quantitativamente l’offerta non porterà ad un vero miglioramento.
Ecco allora che, dopo tanto tempo, potremmo avere politiche attive per l’impiego, formazione di competenze, contratti stabili, ma con giovani che non si riconoscono nell’idea di lavoro che gli viene proposto. Potremmo avere politiche di sostegno alla formazione di una famiglia e di conciliazione vita e lavoro, ma con giovani adattatisi a sentirsi realizzati anche senza figli. Potremmo avere un servizio civile che si estende in modo universale, ma che non riesce a intercettare i mutamenti nella domanda di impegno sociale.
Rimuovere gli ostacoli che finora hanno depotenziato il ruolo dei membri delle nuove generazioni nei processi che generano sviluppo e benessere collettivo e aspettarsi che accorrano in massa ringraziando di essere finalmente ammessi è un’illusione dalla quale liberarsi il prima possibile.

Far soffiare il vento con forza dopo che è stato a lungo flebile non porta automaticamente i giovani ad issare le loro vele. Se non è chiaro dove andare e come aggiornare le coordinate del sistema di orientamento, le vele rimarranno basse o timidamente alzate.
Se il “quanti siete”, anche per il Servizio civile, risulta oggi la questione di maggiore preoccupazione, la risposta che serve dare sta nel valore riconosciuto a tale esperienza. Non basta renderlo accessibile (effettivamente) a tutti, deve diventare anche attrattivo (capace di farsi scegliere) e mettere nelle condizioni di essere vissuto come esperienza trasformativa (che rafforza la capacità di sentirsi soggetti attivi del mondo che cambia). Tutto questo come parte di un processo che non ha risultati scontati, ma è un laboratorio continuo in cui si sperimenta, in modo autentico e collaborativo, il fare con le nuove generazioni, con strumenti condivisi per monitorare e valutare gli esiti (al fine di migliorarlo per chi verrà dopo).

Forse siamo ancora in tempo per mettere in sicurezza il nostro futuro demografico

La demografia italiana, un po’ come la costruzione della Torre di Pisa, via via che evolve nel corso di questo secolo rischia di andare verso uno sbilanciamento sempre meno sostenibile. Due soluzioni sono possibili. La prima impone la rinuncia di un percorso solido di crescita, con relativa condanna all’Italia del XXI a rimanere un progetto incompiuto. La seconda, analogamente all’operazione fatta a su tempo con la Torre di Pisa, richiede di reimpostare il progetto di sviluppo del paese seguendo una curvatura opposta alla pendenza. I punti dell’infrastruttura demografica da cui partire adottando questa seconda soluzione sono quelli delle generazioni di chi ha oggi tra i 45 e i 50 anni e di chi ha tra i 20 e i 25 anni.

Un approccio sistemico per riequilibrare la società italiana

Nelle società mature avanzate se si desidera che le nascite diminuiscano non è necessario mettere in atto nessuna azione di disincentivo, basta semplicemente non realizzare politiche efficaci di sostegno alla libera scelta di avere un figlio.

Crisi demografica UE, nascite a picco. Ecco come provare a invertire la rotta

Nessun paese in Europa presenta un tasso di fecondità sufficiente a garantire un equilibrio nel rapporto tra generazioni. Nel 2010 si avvicinavano a tale livello (attorno ai 2 figli per donna) Francia, Svezia e Irlanda. Nel 2019 – prima dei travagliati anni della pandemia e della guerra – tali paesi risultavano tutti scesi sotto. Il valore più alto alla fine del decennio scorso è rimasto comunque quello francese (pari a 1,87, con Svezia e Irlanda scese a 1,71). Anche Stati Uniti e Australia hanno avuto un andamento simile.