Dalla crisi al welfare perché non siamo più un Paese per bambini

Sono tanti i fattori che portano a non fare figli. In particolare sono quattro i punti critici che frenano la vitalità demografica.

I giovani che rimangono a vivere con i genitori

Difficilmente le nascite in Italia potranno tornare ad aumentare in modo solido se i progetti di vita della nuove generazioni continueranno a rimanere bloccati o se l’unico modo per realizzarli è andare all’estero. Davanti alle difficoltà e alle inefficienze del mercato del lavoro italiano – inasprite dalla crisi e da scelte pubbliche più attente al welfare delle generazioni anziane – i giovani italiani si sono in larga misura trincerati in difesa.

Pur desiderando spesso conquistare una propria autonomia e formare una propria famiglia, si sono trovati ad accentuare la dipendenza dai genitori, ad adattarsi al ribasso e a posticipare le proprie scelte di vita. In questi anni molti giovani sono cresciuti senza essere riusciti a fare veri passi in avanti nel loro percorso di transizione allo stato adulto. Siamo, così, diventati, il paese che maggiormente ha visto crollare la fecondità degli under 30. Il dato è ancor più preoccupante se si pensa che la denatalità passata sta riducendo le nuove potenziali madri (e padri). Incoraggiare e rendere più solidi i percorsi di autonomia delle nuove generazioni è la precondizione, a monte di tutto il resto, per far ripartire la demografia italiana.

Le coppie in difficoltà economica e la carenza di conciliazione

Per chi ha lasciato la casa dei genitori e ha formato un’unione stabile, la possibilità di trasformare l’arrivo di un figlio da desiderio a realizzazione effettiva, è legata a vari fattori. Tra tutti pesano, in particolare, l’incertezza occupazionale e di reddito, assieme alla difficoltà di integrare positivamente tempi di vita e tempi di lavoro. In questi ultimi anni gli strumenti di composizione al rialzo dell’impegno familiare con quello lavorativo sono rimasti cronicamente carenti, mentre la crisi economica ha peggiorato la possibilità per le coppie di avere una doppia entrata, con almeno una delle due solida e continuativa. I dati Istat e il recente rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale documentano come siano cresciute le difficoltà soprattutto per i nuclei con persona di riferimento under 35. Mostrano, inoltre, come la povertà risulti legata sia alla mancanza di impego che alla presenza di minori. E’ necessario, allora, far diventare esperienza positiva l’avere un figlio, in grado di migliorare il benessere di chi fa nascere e di chi nasce, limitando i rischi di produrre impoverimento relazionale e materiale.

La posticipazione che diventa rinuncia

Non c’è, in molti casi, una vera rinuncia ad avere un figlio. Spesso la scelta positiva – soprattutto in condizione di contesto culturale e strutturale poco favorevole – rimane ferma in un punto indefinito del processo decisionale senza mai veramente sbloccarsi. Via via però che il tempo passa e che l’età avanza, da un lato ci si adatta ad uno stile di vita fatto di abitudini che si ha sempre meno voglia di rimettere in discussione, d’altro lato, soprattutto sul versante femminile, ci si accorge che avere un figlio è sempre più difficile e complicato anche perché gli anni più fertili sono passati. L’evidenza di tutto questo la si trova nel fatto che la quota di donne che arrivano ai 50 anni senza figli è raddoppiata rispetto alle generazioni precedenti, salendo oltre il 20 percento. Tale valore può aumentare ancor di più se la crisi economica porta alcune strategie adattive a diventare vincoli verso il basso. Negli anni più recenti è, infatti, aumentato soprattutto il numero di donne arrivate attorno ai 35 anni senza figli. Se esse non incroceranno in tempi brevi le condizioni per recuperare i loro progetti di vita, la discesa congiunturale delle nascite negli anni di crisi rischia di trasformarsi in rinuncia definitiva.

Il contributo debole dell’immigrazione

La componente straniera sul totale dei nati in Italia è aumentata continuamente dagli anni Novanta in poi, fino ad arrivare a toccare quasi gli 80 mila bambini attorno al 2011. Negli anni più recenti la crescita si è prima congelata e poi convertita in discesa. Nel 2015 le nascite straniere sono state poco più di 72 mila, con un’incidenza inferiore al 15 percento. La crisi ha ridotto gli ingressi per lavoro e la permanenza di immigrati sul territorio nazionale, ma la stessa propensione riproduttiva degli stranieri residenti si è sensibilmente ridotta. Il numero medio di figli delle donne di cittadinanza diversa da quella italiana, stimato sopra due e mezzo prima della crisi, è sceso a meno di due figli. Questo significa che anche per gli stranieri la fecondità si sta inabissando sotto i livelli di equilibrio generazionale. In parte questo lo si deve a ben noti meccanismi che portano la popolazione immigrata a somigliare nel tempo sempre più alla popolazione autoctona. Ma è anche evidente che le carenze di welfare e le specifiche difficoltà che incontrano i giovani e le coppie italiane non possono non farsi sentire anche sugli immigrati, nonostante tendano a presentare maggior spirito di adattamento e arrivino spesso da contesti con preferenze di fecondità più elevate.

 

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