L’Italia senza nascite

Eccoci con un altro record negativo certificato dall’Istat. Il rischio vero ora è l’assuefazione. Partiamo però dai dati. Nel 2016 si sono festeggiate nel nostro paese 474 mila nascite.

Questo valore è il più basso non solo di questo secolo, ma anche di quello precedente e di quello prima ancora, quantomeno da quando l’Italia è unita. Ma già nel 2013 avevamo fatto meno bambini di sempre. Poi nel 2014 abbiamo ritoccato al ribasso tale valore. Siamo scesi ancor di più nel 2015 e nel 2016 abbiamo fatto ancora peggio. Detto in altre parole, il declino delle nascite italiane oramai non è più una notizia. Intanto però la demografia è implacabile – se non si fanno le scelte giuste per tempo – nell’erodere i margini del nostro futuro. E come lo fa?

Levando mattoni dal basso del nostro edificio demografico che così diventa via via meno solido con il passare del tempo. La denatalità non determina, infatti, solo una diminuzione della popolazione, ma ancor più un aumento degli squilibri strutturali. L’espansione della longevità è di per sé un fenomeno positivo ma fa anche aumentare la popolazione anziana. L’invecchiamento favorisce l’aumento della spesa sociale, non solo per le pensioni ma anche per la salute pubblica e i servizi di assistenza per chi perde autonomia nelle attività quotidiane. Ma sull’aumento degli anziani non siamo così diversi dagli altri paesi avanzati. Vi sono però due differenze rilevanti, la prima è che la nostra spesa pubblica è meno efficiente, ovvero a parità di euro spesi riusciamo ad aiutare di meno chi è in condizioni di difficoltà; la seconda è che abbiamo molto meno giovani e quindi meno potenziali produttori di ricchezza presente e futura. Ovvero, il problema dell’Italia è che aumenta progressivamente la parte di popolazione che ha dato in passato ed è ora nella necessità di ricevere, mentre – più da noi che altrove – è in continua riduzione la parte di popolazione che dovrebbe essere, nel presente e prossimo futuro, nella condizione di produrre. Come conseguenza delle dinamiche passate ci troviamo infatti oggi con una delle percentuali di under 35 più basse in Europa. Invece che provare a risalire gli ultimi dati sulle nascite ci dicono che stiamo scendendo ancora di più.

Perché, allora, se il fare così pochi figli crea squilibri sociali e frena la crescita economica, continuiamo a farne sempre di meno? Una prima risposta è di tipo tecnico. Nel 2016 il numero medio di figli avuti non è stato inferiore a quello del 2015, il valore è infatti rimasto attorno a 1,27 per le donne di cittadinanza italiana e a 1,95 nel 2016. Quello che è successo è che le trentenni, ovvero il pilastro centrale delle potenziali madri, si sta indebolendo per effetto dei tre decenni passati di denatalità. Detto in altre parole, a parità di figli mediamente avuti è diminuito il numero delle madri e questo porta ad ancor meno nascite, per la precisione 12 mila in meno nel 2016 rispetto al 2015. Per rompere questo avvitamento verso il basso è ancor più necessario consentire alle trentenni di formare una famiglia e conciliare efficacemente, assieme a mariti e partner, tempi di lavoro e cura della prole. La seconda risposta è quindi quella che riguarda la possibilità di realizzare in pieno i propri progetti di vita. Quello che preoccupa non è, infatti, tanto la bassa fecondità, ma il fatto di essere bloccata su valori così bassi da lungo tempo.

All’interno di questo quadro negativo ci sono tre elementi incoraggianti che tengono viva la speranza che il Paese non si avvii in un declino irreversibile, non solo della popolazione ma della possibilità di essere una realtà vitale, in grado di dare il proprio contributo originale all’interno di un mondo che cambia. Il primo è il fatto, come risulta in modo coerente da varie indagini, che gli italiani vorrebbero avere in media almeno due figli. Quindi margini, con politiche adeguate in un contesto favorevole, di aumento della natalità sono possibili. Il secondo è che prima della grande recessione economica la fecondità era in effetti aumentata in varie regioni del Nord Italia. In particolare in Lombardia e, ancor più, in Emilia Romagna, il numero di figli è passato da valori vicini ad uno a metà degli anni Novanta a oltre un figlio e mezzo per donna prima che la crisi arrivasse a mordere. In quindici anni si è ottenuto, quindi, un incremento di grande rilievo. Se si riuscisse a fare altrettanto con l’interno paese nei prossimi quindici anni si arriverebbe a livelli analoghi alla Svezia. Per farlo servirebbe una combinazione favorevole tra uscita dalla crisi e realizzazione politiche solide ed efficaci, con particolare attenzione verso le nuove generazioni e nel Mezzogiorno. Il terzo elemento incoraggiante è l’aumento delle nozze nel 2015. E’ il dato demografico più positivo dall’inizio della crisi, con una crescita soprattutto delle primi unioni tra italiani. Inoltre il dato delle nascite del secondo semestre del 2016 è migliore rispetto al primo semestre. Ma perché questi tre elementi diventino la base di una ripresa vera di vitalità del paese devono essere mescolati con altri due ingredienti: la riconquista della fiducia verso il futuro da parte dei cittadini e un bel salto di credibilità dell’azione politica locale e nazionale.

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