Il mondo sulle spalle dei 50enni. “Aiutiamoli a lavorare meglio”

Non esiste più un’età (valida per tutti e valida per sempre) per mettersi da parte. Ciascuno è chiamato a valutare i tempi giusti, cercando di dare il meglio più a lungo, ma preparandosi anche a un efficace passaggio di testimone con chi verrà dopo.

 

Su Repubblica ampio estratto dal libro “Il futuro che (non) c’è. Costruire un domani migliore con la demografia”. 

Stiamo vivendo un passaggio unico nella storia dell’umanità verso una società matura, in cui quelli che in passato venivano considerati anziani (gli over 65) saranno sistematicamente più dei giovani (gli under 25). L’Italia è uno dei paesi che per primi vedranno realizzarsi, già nei prossimi anni, tale sorpasso. Mentre infatti gli under 25, anche come conseguenza della denatalità, si sono attestati su una numerosità attorno ai 14 milioni e continueranno nei prossimi decenni a rimanere sotto tale livello, gli over 65 hanno superato recentemente i 13 milioni e cresceranno fin a superare i 20 milioni entro il 2050.

Ma anche all’interno dell’età attiva si sta producendo un cambiamento strutturale di grande rilievo. Nei prossimi anni vedremo ridursi in maniera consistente la popolazione nella fascia pivotale, quella che attualmente presenta maggiore occupabilità e produttività (in età 35-44 anni). Per converso, invece, aumenterà in maniera rilevante la fascia 55-64 anni che è quella che attualmente riusciamo a valorizzare meno all’interno del mercato del lavoro e che diventa quindi la sfida principale da porsi.

Nei prossimi anni saremo uno dei paesi che maggiormente vedranno crescere la partecipazione potenziale dei senior al mercato del lavoro. Passeremo da un lavoratore over 55 su sette a oltre uno su quattro entro il 2030. Un cambiamento enorme, con impatto molto forte destinato a prodursi in breve tempo. Nel 2015 la forza lavoro nella fascia 55-64 anni era composta da oltre 3,5 milioni di persone. Anche solo pensando che il tasso di attività in quella fascia rimanga costante al valore attuale, per la sola conseguenza dell’invecchiamento della popolazione avremo comunque un milione di over 55 in più nel mercato del lavoro. Se poi riuscissimo a raggiungere nel 2030 il tasso attuale di occupazione tedesco, in tale fascia di età arriveremmo a oltre 3 milioni di over 55 in più nel nostro sistema produttivo. Verosimilmente il valore che possiamo raggiungere è intermedio tra questi due estremi e le stime, in base anche all’estrapolazione delle dinamiche più recenti, fanno pensare che comunque da qui al 2030 avremo almeno 2,5 milioni di over 55 aggiuntivi al lavoro. Se riusciremo a valorizzarli al meglio l’Italia dimostrerà di essere un paese non solo in crescita, ma in grado di porsi come riferimento nella costruzione di una nuova società che trasforma in vera opportunità il vivere a lungo e bene. Se invece non ci riusciremo subiremo le conseguenze di una popolazione che invecchia in un’economia in declino e con costi sociali in aumento.

La valorizzazione degli over 55, naturalmente, richiede un modello di sostenibilità al lavoro capace di mediare le esigenze dei lavoratori di rimanere produttivi con quelli delle imprese, in difficoltà a rendere efficiente il rapporto tra costo del lavoro e produttività. Se è vero infatti che l’esperienza è un valore, il costo di questo valore deve essere affrontabile, anche in termini economici. Da qui le proposte di facilitare il mantenimento al lavoro dei senior con forme di part time agevolato o limitando la crescita automatica del reddito all’aumentare dell’età di permanenza al lavoro.

Per favorire l’obiettivo di una lunga vita attiva va aiutato il singolo a promuovere al meglio il proprio benessere fisico, sociale e mentale, a mettersi nella condizione di valorizzare pienamente, in ogni fase della sua esistenza, le proprie capacità e le proprie competenze. La questione non è tanto chiedersi fino a quanti anni in più bisogna far lavorare le persone, ma quella di fornire strumenti culturali e operativi che favoriscano la possibilità di rimanere attivi il più a lungo e piacevolmente possibile.

Tutto questo impone un cambiamento di paradigma. Tutto muta continuamente. La vita si allunga, diventa più articolata, immersa in una realtà più complessa, all’interno della quale è sempre più difficile orientarsi. Serve quindi soprattutto un nuovo modo di intendere il ruolo delle istituzioni, di investimento sulla qualità del capitale umano, di promozione attiva delle capacità dei singoli unita a una nuova maturità e consapevolezza individuale.

L’importante è avere in mente che non esiste più un’età (valida per tutti e valida per sempre) per mettersi da parte. Ciascuno è chiamato a valutare i tempi giusti, cercando di dare il meglio più a lungo, ma preparandosi anche a un efficace passaggio di testimone con chi verrà dopo. Migliorare le condizioni per una lunga vita attiva ha ricadute positive per le persone, per le imprese e per il sistema paese. Le aziende, in particolare, che prima inizieranno ad agire positivamente in questa direzione, si troveranno nei prossimi anni con un vantaggio competitivo sulle altre. Come varie ricerche evidenziano, la produttività di un’azienda e il suo successo, prima ancora che nell’uso delle nuove tecnologie, dipenderanno dalla capacità di lungimirante gestione della propria forza lavoro

L’Italia nel suo complesso può vincere questa sfida se favorisce il cambiamento culturale che porta dal pensare all’invecchiamento come problema (come alibi per non cambiare le cose e rassegnarsi al declino), a cogliere la longevità come opportunità per costruire una società migliore. Una società e un’economia più mature nel produrre benessere, in cui si possano cogliere i frutti positivi di tutte le stagioni della vita. Sta a noi decidere se questo passaggio epocale vogliamo viverlo da vincitori o da perdenti.

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