Il macigno delle baby pensioni: 7,5 miliardi, costano più di «quota 100»

24/10/2018
IL SOLE 24 ORE
Il macigno delle baby pensioni: 7,5 miliardi, costano più di «quota 100» IL SOLE 24 ORE

Quattordici anni, sei mesi e un giorno per le donne con figli. Diciannove anni, sei mesi e un giorno per gli uomini. La metà, o addirittura meno, del numero di contributi (38) richiesti dalla quota 100 che sarà il piatto forte della manovra allo studio del Governo.

Chi si ricorda le baby pensioni, che hanno permesso a diverse centinaia di migliaia di lavoratori pubblici di anticipare l’età del ritiro dal lavoro all’età che per molti “giovani” di oggi è quella del primo lavoro? Una misura introdotta nel 1973 dal Governo guidato dal democristiano Mariano Rumor e che ha resistito quasi vent’anni, visto che fu abolita da Giuliano Amato nel 1992 e che ha consentito il ritiro anche a persone che in virtù dei pochi contributi di richiesti avevano meno di 30 anni di età.

Un conto salato per i lavoratori di oggi. Una generazione, quella dei baby pensionati, che continua a ricevere il proprio assegno da decine di anni, per chi ha lasciato il lavoro nel 1973 ed è ancora in vita si parla di 45 anni. Una possibilità sfruttata da circa 400mila persone, per una spesa annua di 7,5 miliardi l’euro, più della «quota 100» (62 anni e 38 di contributi) prevista nella manovra 2019, che avrà un costo stimato in 6,75 miliardi.
Persone che hanno passato in pensione il doppio o addirittura il triplo del tempo che hanno trascorso al lavoro. Un “lusso” oggi impensabile che, secondo una stima di Confartigianato a valori 2010, costerebbe 6.630 euro per ciascun lavoratore, in termini di mancate entrate e maggiori usciti.

«La baby pensioni – commenta Alessandro Rosina, ordinario di Demografia all’università Cattolica di Milano – sono forse l’esempio più eclatante di un Paese che, dopo l’intensa crescita e mobilità sociale nei trent’anni gloriosi del dopoguerra, ha perso la propria visione di un futuro solido e condiviso da costruire». Un Paese, secondo Rosina,« che ha trasformato, con complicità diffusa, il benessere raggiunto in diritto acquisito da difendere anziché renderlo investimento sulla produzione di nuovo benessere, scaricando i costi sulle nuove generazioni». Oggi i pochi giovani che lavorano da un lato devono contribuire a coprire gli assegni generosi delle vecchie generazioni andate in pensione con il vecchio sistema, dall’altro hanno la propria pensione legata ai contributi versati. Si trovano però anche con condizioni occupazionali e di reddito più incerte e quindi con futuro previdenziale più a rischio.

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