Una generazione perduta?

04/01/2016
VITA PASTORALE
Una generazione perduta? VITA PASTORALE

Un problema gravissimo che Alessandro Rosina analizza nel suo libro: maggiore è in Italia più che nel resto d’Europa il numero dei giovani che entrano in una nuvola grigia nel passaggio tra la fine dell’iter formativo e il mercato del lavoro.

L’acronimo Neet sta – in inglese – per Not in education, employment or training e indica la percentuale di persone con meno di 30 anni d’età che non studiano, non lavorano e non sono in apprendistato. I giovani che si trovano in tale condizione secondo i dati più recenti sono in Italia circa 2,4 milioni: l’equivalente degli abitanti di una regione di medie dimensioni. Nessun altro Paese in Europa ne ha in valore assoluto così tanti. In termini relativi sono oggi il 26% di chi ha tra i 15 e i 29 anni, ma il dato era già elevato prima della crisi (19%). Al tema è dedicato il saggio Neet. Giovani che non studiano e non lavorano (Vita e Pensiero 2015, pp. 116, H 12,00) di Alessandro Rosina, docente di Demografia e statistica sociale all’università cattolica di Milano, al quale rivolgiamo alcune domande.

Professor Rosina, perché i Neet sono un problema?

«A differenza del tasso di disoccupazione giovanile, questa categoria prende in considerazione non solo chi cerca attivamente lavoro ma anche chi non lo cerca più perché scoraggiato. È quindi la misura più adeguata per esprimere lo spreco e il sottoutilizzo del potenziale giovanile con conseguente deterioramento di occupabilità e produttività future. Come documentano varie ricerche, le ricadute negative sono di vario tipo: minori entrate fiscali, costi maggiori per prestazioni sociali, malessere sociale. Il costo sociale, stimato dall’Eurofound, è pari all’1,2% del Pil europeo, mentre in Italia si sale a valori attorno al 2%. Ci sono poi, però, anche costi individuali, sia materiali che psicologici, di difficile quantificazione».

Per quali ragioni in Italia la percentuale di queste persone è nettamente superiore rispetto alla media Ue?

«Si è creata negli ultimi decenni una profonda discrasia tra giovani e sistema-Paese. Da un lato, quello che serve alle nuove generazioni per essere adeguatamente formate, valorizzate e dare il meglio di sé non c’è, o quasi, nel Paese. Dall’altro, il Paese esprime scarsa domanda di giovani, li include poco e male nei processi decisionali e produttivi. Siamo diventati una delle economie avanzate meno in grado di mettere in sintonia le capacità e le competenze delle nuove generazioni con le trasformazioni e le opportunità del mercato del lavoro e della società. Negli ultimi anni il quadro è ulteriormente peggiorato a causa della prolungata congiuntura economica negativa in combinazione con la cronica carenza di strumenti a sostegno dell’autonomia e di promozione dell’intraprendenza dei giovani nella società e nel mercato del lavoro».

Questi giovani sono vittime di un contesto economico-produttivo depresso oppure hanno anche delle responsabilità soggettive?

«La condizione degli attuali under 30 (ma il discorso si può estendere anche agli under 35), come ben rappresentato dal Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo (2014), assomiglia sempre di più a un labirinto dove alto è il rischio di girare a vuoto, nonostante gli sforzi e la buona volontà. Nel frattempo si cresce e diventa sempre più difficile recuperare il tempo perduto. Ecco allora che ci si trova a rinviare progressivamente la realizzazione in ambito lavorativo, a posticipare la conquista di un’autonomia dai genitori e la formazione di una propria famiglia, ad abbassare le aspettative sul reddito, sul numero dei figli, sulle condizioni di benessere economico, sociale e relazionale. I giovani italiani stanno maturando una forte frustrazione per il sottoutilizzo delle proprie potenzialità insieme a una profonda sfiducia nella politica per la carenza di risultati effettivi. Dopo averli fatti finire nella palude, non possiamo pretendere ora che dimostrino di saperne uscire da soli, magari facendo come il Barone di Münchhausen che uscì incolume dalle sabbie mobili tirandosi fortemente e con convinzione per i capelli».

Quali strategie dovrebbero essere messe in campo dai governi per arginare il fenomeno?

«Da un lato l’incoraggiamento dei giovani a investire sulla propria formazione e dall’altro l’espansione delle opportunità di valorizzazione delle loro competenze sul mercato del lavoro sono la precondizione per riattivare un circolo virtuoso che coniughi realizzazione individuale, benessere sociale e sviluppo economico. Se non ci riusciremo, l’Italia diventerà l’esperimento più interessante per vedere che cosa succede a un Paese che disinveste sulla dimensione sia quantitativa sia qualitativa delle nuove generazioni. Uno dei motivi per cui ci troviamo con uno spreco così ampio del potenziale produttivo delle giovani generazioni, oltre alle carenze formative, è il nostro basso investimento in politiche attive. Le politiche attive del lavoro mirano ad aumentare e a stimolare la capacità della persona di sapersi collocare nel mercato, l’aggiornamento delle conoscenze e competenze lavorative, l’intraprendenza e l’autoimprenditorialità. A causa della carenza di questi strumenti, è maggiore in Italia che nel resto d’Europa il numero di giovani che entrano in una nuvola grigia nel passaggio tra la fine del percorso formativo e l’entrata nel mercato del lavoro. Questo è lo snodo più importante su cui intervenire».

La Chiesa cattolica è consapevole del problema e ha varato iniziative adeguate?

«È importante soprattutto aiutare i giovani a non scoraggiarsi. Papa Francesco è di gran lunga la figura pubblica che trova maggior consenso e credibilità tra i giovani, come mostrano ancora i dati del Rapporto giovani. I suoi interventi sulla necessità che la società e l’economia offrano occasioni di qualità perché i giovani possano esprimere il loro protagonismo positivo, sono ascoltati con molta attenzione. La stessa Chiesa cattolica ha maturato una crescente consapevolezza dell’importanza di aiutare chi si trova in maggiore difficoltà nell’accesso al mercato del lavoro. Uno degli impegni più rilevanti è quello della sfida educativa. Molti ragazzi rischiano di perdersi perché fragili e disorientati nella costruzione di un sistema di valori all’interno del quale dar senso e progettualità alle proprie scelte».

Che cosa potrebbero fare, per contribuire a risolvere questo problema, la comunità ecclesiale e gli operatori della pastorale in termini sia assistenziali che educativi?

«La comunità ecclesiale e gli operatori della pastorale possono far molto, sia attraverso iniziative mirate ai contesti più problematici sia attraverso l’impegno educativo più generale verso le nuove generazioni, in sinergia con la famiglia e la scuola. I ragazzi sono sempre più facili alla demotivazione se non trovano stimoli e un riscontro concreto del loro contributo, ma pronti a mettere entusiasmo, impegno e a dare fiducia a chi li sa includere in processi di arricchimento personale e sociale. Sulla differenza tra ragazzi passivi e scoraggiati da un lato e giovani intraprendenti e vitali dall’altro, pesano molto le esperienze di senso, relazione e valore fatte durante la preadolescenza e confermate nel percorso successivo. Gli oratori e le attività in generale con i gruppi giovanili sono luoghi e occasioni con grandi potenzialità per stimolare il protagonismo dei ragazzi. Rappresentano un contesto privilegiato d’incentivo e supporto per far emergere i talenti e imparare a moltiplicarli acquistando fiducia nella propria capacità di agire positivamente nel mondo».

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

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