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Lavoro di qualità per arginare la crisi demografica

La popolazione europea si è fermata e sta entrando in fase di declino. All’inizio del 2021 vivevano nell’Unione Europea poco meno di 450 milioni di persone. Si tratta di 312 mila in meno rispetto al 1° gennaio 2020. Il paese che ha contribuito maggiormente a tale riduzione è stata Italia (-384 mila). La popolazione del pianeta continua invece ad aumentare, pur a ritmi rallentati rispetto al secolo precedente e in modo molto differenziato al suo interno. Nella seconda metà del XXI secolo la spinta della crescita demografica mondiale, sempre più limitata al continente africano, andrà progressivamente ad esaurirsi. Nel frattempo la popolazione diventerà sempre più anziana, come conseguenza del declino delle nascite e dell’aumento della longevità. Gli over 65, che per tutta la storia dell’umanità fino alla fine nel millennio appena concluso avevano un peso demografico inferiore al 5 percento, entro il 2100 arriveranno ad essere circa il 22 percento, ovvero il valore che l’Italia ha già oggi.

Quadro demografico tragico. Ultimo appello per cambiare

Per farsi un’idea di come la combinazione tra le dinamiche negative del decennio scorso (dopo l’impatto dalla Grande recessione) e gli effetti della pandemia abbiamo cambiato profondamento in negativo un quadro già problematico, basti pensare che nel report di presentazione delle previsioni con base 2011 si trovava scritto che, considerate le ipotesi più plausibili, «le nascite non scenderebbero mai sotto la soglia delle 500 mila unità». Nell’edizione appena rilasciata dall’Istat la situazione si è del tutto capovolta: in nessuno degli scenari delineati la curva delle nascite riuscirebbe a risalire sopra le 500 mila, quantomeno fino all’orizzonte del 2065. Nello scenario mediano, quello preso come riferimento, si arriverebbe solo tra quindici anni a riportarsi ai livelli pre-pandemia (i 420 mila nati osservati nel 2019) ma per poi tornare a diminuire. Insomma si configura, secondo l’Istat, una ripresa modesta della natalità che non inverte per nulla la tendenza negativa dell’ultimo decennio. Nello scenario peggiore – che nelle previsioni Istat delle edizioni precedenti si è rivelato però quello più affidabile – entro la metà del secolo la curva delle nascite andrebbe addirittura a inabissarsi sotto le 300 mila.

Il dato più preoccupante non è il declino della popolazione in sé, ma l’essere diventati il paese nel quale con più intensità la popolazione anziana e quella giovanile evolvono in direzione opposta, la prima in forte aumento e la seconda in sensibile contrazione. Questi squilibri tra generazioni, già da tempo tra i peggiori al mondo, anziché contenerli li abbiamo lasciati allargare con il crollo continuo, appunto, della natalità e i limiti nella capacità di gestire in modo positivo i flussi migratori.

Il dato su cui concentrare l’attenzione è soprattutto il rapporto tra ultra65enni e popolazione attiva (indice di dipendenza degli anziani). Su questo indicatore è interessante il confronto con la Svezia e la Germania. Negli anni Novanta la Svezia era tra i paesi con valore peggiore di tale rapporto. Grazie però a politiche familiari mirate è riuscita a risollevare il tasso di fecondità (da 1,5 figli nel 1998 a quasi e nel 2010) e a porsi come uno dei paesi europei con minor peggioramento degli squilibri strutturali. La Germania fino al primo decennio di questo secolo presentava dati demografici analoghi all’Italia, ma grazie ad un solido pacchetto di misure di sostegno alla natalità ha successivamente invertito la tendenza ed ora presenta prospettive di evoluzione futura meno compromesse: il rapporto tra persone di 65 anni e oltre sulla popolazione tra i 15 e i 64, secondo le proiezioni Eurostat con base 2019, è destinato a rimanere all’orizzonte del 2060 sotto il 50 percento in Germania ed invece a superare il 60 percento in Italia.

A parità di altre condizioni, nei prossimi decenni ci troveremo sempre di più con un quadro demografico che renderà più difficile per il nostro paese crescere, innovare, alimentare benessere e sviluppo sostenibile, garantire risorse adeguate al sistema di welfare pubblico. Tanto più se gravati anche da un enorme debito pubblico.

L’unica nota positiva è il fatto che queste proiezioni sono state rilasciate prima ancora di valutare l’effettivo rilancio dell’Italia nel post pandemia. Non sappiamo ancora quanto la discontinuità della crisi sanitaria potrà dare consapevolezza nel paese sui limiti del passato e favorire un cambio di atteggiamento verso il futuro. Non è ancora chiaro l’impulso che potrà arrivare dal Piano nazionale di ripresa e resilienza che mette in campo risorse del tutto inedite rispetto al passato. Non abbiamo ancora evidenze sul ruolo che potranno avere le misure inserite nel Family act, un pacchetto di politiche familiari integrate che rappresenta una novità per l’Italia. La combinazione positiva di tutti questi fattori può ancora fare la differenza. Incarichiamoci di dimostrarlo prima di rassegnarci definitivamente.

Demografia: Occidente a prova di qualità

La demografia ha avuto un ruolo rilevante nella lunga fase storica in cui l’Occidente ha allargato le basi del proprio benessere economico e la sua sfera di influenza culturale e geopolitica nel mondo. La combinazione tra rivoluzione scientifica, rivoluzione industriale e transizione demografica, ha progressivamente cambiato in tutto il Pianeta le coordinate di riferimento (non necessariamente i comportamenti) del modo di vivere, di stare in relazione, di produrre ricchezza, di formare aspettative e orientare le proprie scelte individuali e di contribuire a quelle collettive. Oggi si può essere terrapiattisti o si può vivere in una comunità che cerca di imporre regole restrittive sulle scelte femminili, ma non c’è dubbio che tali due prospettive si collocano all’interno di un sistema generale di coordinate di lettura della realtà che ha come riferimento un Pianeta di forma tonda e la parità di genere.

Elezioni, ripartire dal basso

Dopo la discontinuità prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale si aprì in Italia, come ben noto, la fase di “Ricostruzione”. Se non si sentì la necessità di chiamarla “Nuova costruzione” fu anche perché la discontinuità risultava sancita in modo evidente da profondi mutamenti dell’assetto istituzionale. Con il referendum del 2 giugno 1946 (che vide, tra l’altro, per la prima volta la partecipazione femminile) si passò a una nuova forma di Governo, con conseguente cambiamento del nome dello Stato italiano (da “Regno d’Italia” a “Repubblica italiana”) e la stesura di una nuova carta costituzionale.

Il Covid-19 non ha fatto crollare gli edifici ma ci impone (o offre l’occasione) di costruire un nuovo modello sociale, un nuovo modo di stare in relazione, una nuova organizzazione all’interno del contesto lavorativo, anche un nuovo rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. La fase dell’Italia post pandemica è auspicata avere spirito e modalità analoghi, pur con tutte le differenze, a quelli della Ricostruzione che pose anche le basi del miracolo economico. Gli stanziamenti messi a disposizione per finanziare un nuovo inizio per il nostro paese, in particolare quelli di Next Generation Eu, trovano un precedente simile solo nel piano Marshall avviato nel 1946. Quello di cui l’Italia di oggi non potrà giovarsi è allora proprio l’impulso non solo simbolico, dato dal rinnovo delle basi democratiche del paese.

Il momento partecipativo democratico più importante della fase post emergenza sanitaria è rappresentato dalle elezioni amministrative che si terranno il prossimo 3 ottobre. Le prime di una Italia pienamente proiettata nel progettare il dopo. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che indica come verranno investite le risorse di questo nuovo piano Marshall, è il frutto di decisioni prese dall’alto. La prima scelta democratica che indirizza lo scenario post-pandemico è quindi, di fatto, proprio quella del rinnovo delle amministrazioni di 1.160 comuni (oltre che di alcune Regioni) e che coinvolge oltre 12 milioni di cittadini.

Il valore di tali elezioni – non solo sul piano simbolico – sarebbe stato ancor maggiore se si fosse colta l’occasione di estendere il voto locale ai sedicenni, compresi i figli degli immigrati (con possibilità di accesso alla cittadinanza prima dei 18 anni attraverso lo ius culturae). Purtroppo nessuna di tali due riforme a costo zero è stata (ancora) attuata.

Rimane in ogni caso vero che gran parte di come verrà organizzata, interpretata, vissuta la nuova normalità, dipenderà dalle soluzioni e dalle innovazioni che troveranno successo sul territorio. Detto in altre parole, il successo dell’avvio di una nuova fase del paese dipenderà da come il Pnrr e le risorse disponibili sapranno rendersi funzionali e coerenti con le migliori pratiche ed esperienze espresse nelle città, nei quartieri, nelle realtà locali.

E’ a partire da questa convinzione che si è sviluppato il confronto organizzato lo scorso sabato 18 settembre dall’associazione “Mappa celeste – Forum per il futuro” (www.mappaceleste.it). Da oramai tre anni Mappa celeste organizza eventi – metaforicamente collocati nei passaggi di stagione – con l’obiettivo di mettere in rete e far emergere ciò che dal basso funziona, è sostenibile e crea valore nell’aprirsi positivamente verso il futuro e in coerenza con i grandi cambiamenti del nostro tempo. Il tema messo al centro in questa occasione è stato quello del rapporto tra politica e prossimità.

La serata si è aperta con un intervento di Ezio Manzini, autore del recente libro «Abitare la prossimità. Idee per la città dei 15 minuti» e si è chiusa con Cristina Tajani, che ha appena pubblicato «Città prossime. Dal quartiere al mondo: Milano e le metropoli globali». Tra tali due interventi si è svolto il racconto di candidati – soprattutto giovani e donne – che hanno deciso di mettersi a disposizione, nel modo più stretto con il territorio (nei municipi delle grandi città e nei piccoli comuni), per aiutare a dar spinta e direzione dal basso ad un nuovo percorso del paese. Al di là dei candidati sindaco, su cui si concentra ossessivamente la campagna elettorale, è soprattutto da un impegno come il loro che il territorio può sperimentare nuove forme di protagonismo positivo attraverso processi che mettano in relazione le persone per creare valore condiviso.

Se la pandemia ci ha imposto il distanziamento, è proprio da un nuovo significato e una nuova funzione da dare alla prossimità che ora dobbiamo ripartire.