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Crisi demografica, la grande questione rimossa del Paese

La popolazione italiana è da pochi anni entrata in una nuova fase della sua storia, che caratterizzerà tutto il resto di questo secolo, quella del declino demografico. La curva demografica negativa pone una sfida inedita ai processi di sviluppo economico e al sistema di welfare del paese.

Se pensiamo alla fase, nel secondo dopoguerra, in cui l’Italia è maggiormente riuscita a cogliere le sfide dei tempi nuovi – espandendo opportunità e favorendo la mobilità sociale – le condizioni demografiche erano del tutto diverse a quelle attuali.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, la popolazione italiana cresceva ed aveva la struttura di una solida piramide, con molti più giovani e molti meno anziani rispetto a quella attuale (e ancor più a quella futura).

Dobbiamo, allora, oggi chiederci cosa significa generare benessere, alimentare processi di sviluppo, garantire sostenibilità sociale in un paese demograficamente in declino.

Se c’è una cosa certa del futuro è che con questa curva demografica negativa dovremmo sempre più fare i conti. Con modalità che richiedono un profondo riadattamento sia in termini di nuovi rischi che di nuove opportunità.

Questo significa anche che l’Italia non può recuperare soluzioni dal passato, ma debole è anche la possibilità di imitare altri paesi: sul fronte qualitativo per le specificità che ci caratterizzano e su quello quantitativo per la nostra maggior accentuazione dei cambiamenti demografici.

La demografia è implacabile – se non si fanno le scelte giuste per tempo – nel vincolare i margini sui quali costruire il futuro. E come lo fa? Levando mattoni dal basso dell’edificio demografico che così diventa via via sempre meno solido con il passare del tempo. La trascuratezza con cui abbiamo finora gestito queste dinamiche pone oggi il nostro Paese di fronte alla prospettiva di una drastica riduzione della popolazione attiva. La denatalità italiana ha, infatti, prima ridotto la popolazione infantile, poi quella giovanile ed ora sta andando ad erodere sempre più anche le età adulte (anche tenendo conto dei flussi migratori, senza i quali la riduzione sarebbe ancor più rilevante).

L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva è tra quelli guardati con più attenzione e preoccupazioni nelle economie mature avanzate. Fino agli anni più recenti ad alimentare la crescita dell’indice di dipendenza degli anziani è stato soprattutto l’aumento del numeratore (le persone di 65 anni e oltre), ma nei prossimi anni e decenni alla sua spinta verso l’alto contribuirà sempre più la diminuzione del denominatore (la popolazione in età da lavoro, ovvero la componente della popolazione che maggiormente contribuisce alla crescita economica, finanzia e fa funzionare il sistema di welfare).

Il contributo di tutte le generazioni è importante, ma è dal basso che una società si rinnova e mette solide basi per il proprio futuro. Il paese in Europa con la più bassa percentuale di giovani, non può più permettersi di avere anche alti livelli di Neet, di working poor, di overeducation.

Formazione e qualità del lavoro delle nuove generazioni devono essere messe al centro di una nuova fase di sviluppo del paese dopo la discontinuità della pandemia. E’ la risposta principale al debito pubblico, ai crescenti squilibri demografici, alle sfide poste dalla transizione verde e digitale.

Lo sviluppo solido e sostenuto dei primi decenni del secondo dopoguerra ha tratto la sua principale spinta da nuove generazioni che costituivano una risorsa consistente, ma soprattutto dinamica e vivace e intraprendente, nel contesto di un clima di fiducia e di aspettative positive crescenti verso il futuro.

L’insegnamento che ne deriva per oggi non è solo che condizione delle nuove generazioni e sviluppo economico sono legati ma anche che per superare le fasi di difficoltà e di rilancio dopo una discontinuità serve un progetto-paese in cui i giovani possano riconoscersi e intravedere una propria parte attiva.

Diventa allora necessario un cambiamento di strategia: non costringere i giovani ad adattarsi al ribasso a quello che finora il sistema paese è stato in grado di offrire, ma consentire all’economia di crescere e generare benessere, in coerenza con la vocazione dei territori, facendo leva sul meglio di quanto le nuove generazioni possono dare (quando preparate e incoraggiate adeguatamente).

Il posto dei giovani, tra presente e futuro

Progettare il futuro in un contesto in continua e rapida trasformazione
È ormai consolidato come, nel corso degli ultimi decenni, i profondi mutamenti che hanno interessato le società contemporanee abbiano determinato importanti cambiamenti sulla vita di uomini e donne, che si sono trovati a vivere le proprie scelte in un contesto in continua e rapida trasformazione. Questo è avvenuto, e sta avvenendo, in uno scenario dove i sistemi di welfare (quando presenti) non sempre riescono a garantire efficaci reti di protezione. In una situazione di marcata instabilità, profondamente segnata dalla crisi economico-finanziaria del 2008, la pandemia da Covid-19 ha rappresentato un improvviso e inatteso cambiamento nelle dinamiche globali, determinato una discontinuità imprevista e improvvisa 1.

All’interno di queste dinamiche, i giovani rappresentano la componente più colpita nel breve e nel medio-lungo periodo, sia per quanto riguarda le condizioni materiali, sia relativamente ai processi e alle dinamiche di costruzione dell’identità. Rilevanti (e potenzialmente profonde) sono le conseguenze sulla propensione a investire e progettare il futuro, in un contesto in cui le politiche faticano a dare risposte efficaci e sostegni opportuni, rimanendo sbilanciate verso la tutela delle generazioni adulte (con più peso elettorale e più presenza nelle categorie più influenti e meglio rappresentate). La pandemia ha acuito le diseguaglianze intergenerazionali e intragenerazionali, mettendo a dura prova tanto i sistemi politico-istituzionali quanto i sistemi economico-produttivi. Da ultimo, le recenti tensioni politiche connesse al conflitto russo-ucraino, hanno aggiunto ulteriore incertezza, sia rispetto alle dinamiche economiche della ripresa sia nell’atteggiamento dei singoli verso il futuro.

Uno dei caratteri distintivi delle società avanzate è identificabile nel binomio complessità e rapidità, dal quale derivano molte più opzioni per le nuove generazioni, rispetto alle generazioni precedenti, ma anche un maggior grado di insicurezza rispetto alle scelte da intraprendere. In questo senso la carenza, se non la mancanza, di sistemi di orientamento e supporto negli snodi dei percorsi di vita e professionali, aumenta il vincolo al ribasso di aspirazioni e obiettivi, generando un passaggio alla vita adulta in cui si rischia di portare delusioni e frustrazioni, anziché energie e competenze, necessarie per contribuire alla crescita e allo sviluppo sociale.

Se i giovani, forse ancor più che in passato, rappresentano la chiave fondamentale per agire sul cambiamento, occorre garantire condizioni adeguate perché possano svolgere tale ruolo, a fronte dell’aumento di complessità e dell’indebolimento del loro peso demografico, in senso sia assoluto che relativo, rispetto alle generazioni più mature. Se messe nelle condizioni adeguate, le giovani generazioni rappresentano la componente della popolazione maggiormente in grado di cogliere nuove opportunità dalle trasformazioni in atto. Se, invece, i giovani sono deboli e mal supportati, il rischio è che prevalgano le fragilità esponendoli a vecchi e nuovi rischi.

L’investimento dell’Ue, il ritardo italiano
Il programma NextGenerationEU, con i suoi 750 miliardi di euro messi a budget, rappresenta la principale risposta dell’Europa per porre le basi di una nuova partenza. Al nostro Paese sono stati riconosciuti poco più di 190 miliardi confermando il ruolo che l’Italia ha deciso di giocare attraverso l’attuazione del Piano di Ripresa e Resilienza. La centralità posta dall’Unione Europea sul fattore “giovani” risiede anche nella scelta di titolare il programma proprio alle “nuove generazioni europee” prevedendo, tra le sei principali missioni dei programmi di spesa nazionali, una specifica missione dedicata alle “politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani, come l’istruzione e le competenze”.

Nonostante la consistente quota destinata all’Italia, il nostro Paese non ha ritenuto necessario declinare le politiche per il contrasto al divario delle giovani generazioni all’interno del proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), limitandosi, peraltro anche in tema di pari opportunità, a prevedere una generica (quanto poco monitorabile) “priorità orizzontale”. Nonostante ciò, a livello politico si sono attivate anche misure che vanno nel senso di una attenzione specifica, come l’istituzione del COVIGE – Comitato per la Valutazione dell’Impatto Generazionale delle politiche pubbliche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri 2.

Il progressivo processo di disinvestimento sulle giovani generazioni, che ha caratterizzato negli ultimi decenni il nostro Paese, incidendo in termini di riduzione in quantità e qualità adeguata di nuovi entranti nella popolazione, nella società, nell’economia, non è solo iniquo ma anche controproducente 3. Determina una riduzione delle loro prospettive anche rispetto agli ambiti e ai territori nei quali vivono: partecipano di meno al mercato del lavoro, rimangono più a lungo dipendenti dalle famiglie, si devono adattare a lavori spesso irregolari o sottopagati, oppure scelgono di emigrare. La lunga dipendenza dai genitori rappresenta sempre più una risposta a squilibri generazionali e all’aumento delle incertezze occupazionali.

Il tema delle diseguaglianze strutturali continua a rappresentare un elemento determinante e discriminante nelle chance che definiscono il destino sociale. In definitiva, i giovani italiani sono numericamente pochi, risultano meno formati a livello avanzato, poco valorizzati quando si inseriscono nel sistema produttivo, più passivamente a carico del sistema pubblico o della famiglia di origine 4. Se compariamo l’Italia con gli altri Paesi europei, emerge come i giovani siano meno messi nella condizione di creare valore per il “sistema Paese” e più esposti al rischio di diventare un peso in termini di costi sociali.

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Contro gli squilibri demografici serve la qualità del nuovo lavoro

Alla base del mondo che cambia c’è il rinnovo generazionale. I meccanismi e le modalità di tale rinnovo hanno però, ancor più, ricadute cruciali sulla capacità di produrre benessere e sviluppo nelle società mature avanzate.

Per lunga parte della storia dell’umanità l’avvicendarsi delle generazioni è avvenuto in modo del tutto naturale ma anche molto dispersivo, con elevati rischi di morte compensati da un’elevata fecondità. Se nel passato la questione del ricambio generazionale non era esplicitamente posta, ancor meno lo è stata nella fase centrale della transizione demografica. In tale fase, la riduzione della mortalità precoce, in combinazione con numero di figli ancora superiore a due, ha anzi rafforzato la presenza delle nuove generazioni sia nella società che nell’economia.

Solo verso la fine degli anni Settanta la fecondità italiana è scesa sotto la soglia di equilibrio nel rapporto tra generazioni, ovvero sotto i due figli. E’ precipitata poi sotto 1,5 verso la metà degli anni Ottanta. Questo significa che il rinnovo generazionale debole è un fenomeno molto recente, che inizia a fare sentire i suoi effetti quando le generazioni nate dalla fine degli anni Ottanta in poi fanno il loro ingresso nella vita adulta. Ciò è avvenuto in concomitanza con profondi cambiamenti qualitativi che hanno complicato l’entrata stabile nel mercato del lavoro, da un lato, e con l’impatto negativo della Grande recessione, dall’altro. Le difficoltà specifiche incontrate nella transizione scuola-lavoro e di conciliazione tra vita e lavoro, trovano riscontro nel fatto che poco prima dell’impatto di una nuova crisi, causata dalla pandemia di Covid-19, il nostro paese si trovava a presentare livelli tra i più alti in Europa di Neet (under 35 che non studiano e non lavorano) e più bassi di occupazione femminile. Con conseguenti freni anche all’autonomia giovanile, alla formazione di nuove unioni, alla natalità.

Negli anni Dieci di questo secolo il centro della vita attiva del paese era ancora solidamente presidiato, in ogni caso, dalle generazioni demograficamente consistente dei primi tre decenni del secondo dopoguerra. Le ricadute maggiori del rinnovo generazionale debole nel mondo del lavoro sono, quindi, destinate a farsi sentire soprattutto nei prossimi decenni. Per farsene un’idea proviamo a confrontare il percorso di due diverse coorti: chi oggi ha 57 anni e chi ne ha 27. La prima generazione, nata nel 1965 quanto la natalità era ancora elevata, conta quasi un milione di persone. Ha svolto la parte centrale della sua vita attiva con un tasso di dipendenza degli anziani – indicatore che misura gli squilibri strutturali nel rapporto tra generazioni in età lavorativa e in età da pensione – inferiore al 35 percento.

La consistenza demografica di chi ha 27 anni, ovvero i nati nel 1995, è drasticamente più bassa, sotto le 600 mila unità. Tale coorte avrà 37 anni nel 2032, 47 anni nel 2042, 57 nel 2052. Vivrà la fase centrale della sua vita attiva in un paese in cui il tasso di dipendenza degli anziani in tali tre punti temporali salirà (secondo lo scenario mediano Istat) al 47%, poi al 62%, e infine al 66%.

Per arricchire il quadro va notato che mentre tutte le età nella fascia matura e anziana hanno sinora avuto una consistenza numerica inferiore rispetto a chi era in età lavorativa, questo requisito di stabilità strutturale verrà perso. Tanto per fare un esempio, gli attuali 77enni sono circa 500 mila e nessuna età tra i 15 e i 64 anni presenta valori inferiori. Nel 2042 saliranno però oltre 820 mila diventando dominanti su tutte le età sotto i 65 anni. Nel 2052 i 77 anni saranno addirittura, in assoluto, l’età più popolosa del Paese.

Questo significa che chi ha meno di 35 anni oggi farà l’inedita e complicata esperienza di vedere evolvere la propria vita lavorativa e professionale in un paese in cui le età con peso demografico più rilevante si troveranno nella fascia anziana. Avrà il compito di far crescere dal punto di vista economico e rendere sostenibile come spesa sociale, un paese con alto debito pubblico e accentuati squilibri strutturali, dovendo anche pensare al proprio futuro previdenziale.

Potrà giocarsi la possibilità di riuscirci solo se il sistema Italia saprà rispondere all’indebolimento del rinnovo generazionale nel mercato del lavoro – anche sulla spinta delle riforme previste nel PNRR – con un effettivo potenziamento qualitativo dei percorsi professionali (maschili e femminili) a partire dalla età più giovani e lungo tutto il corso di vita.

Esigua, fragile, demotivata. Una generazione fantasma si aggira per l’Italia

Il rapporto tra giovani e mondo del lavoro è in profonda trasformazione. Alto è il rischio, in particolare, che la generazione Zeta, la prima a svolgere tutta la propria vita in questo secolo e la prima a proiettare tutta la propria carriera lavorativa nel post pandemia, diventi una ghosting generation.

L’Italia, con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ha concentrato la sua attenzione sulla necessità di dare una infrastruttura al paese che, da un lato, superi i limiti del passato e, dall’altro, sia coerente con le sfide del futuro legate alla transizione verde e digitale. Tutto questo, però, non può essere realizzato come un vestito con modello, foggia e materiale pensati per il cambio di stagione ma senza aver preso misure, caratteristiche e preferenze di chi dovrà indossarlo. Misure, caratteristiche e preferenze delle nuove generazioni corrispondono a tre ordini di fattori sottovalutati nel recente passato, ma destinati ora a pesare in modo combinato sulla possibilità di rilancio del paese con il rischio di vincolarla al ribasso.

Il primo è quello che ha cause più strutturali e radicate nei processi di medio-lungo periodo. Ci siamo preoccupati negli ultimi decenni dell’invecchiamento, ovvero del continuo aumento della popolazione anziana, ma molta meno attenzione abbiamo dato alla progressiva e accentata riduzione della consistenza quantitativa delle nuove generazioni. I dati Eurostat più recenti evidenziano come l’Italia sia lo stato membro con percentuale più bassa di under 30: 28,3% contro valori superiori al 33% in gran parte d’Europa.

Il riscontro dell’essere il paese che sta affrontando la più drastica riduzione del potenziale di forza lavoro in modo del tutto inedito rispetto al passato, lo si può ottenere dal confronto tra la fascia di età 30-34 e la fascia 50-54. In Italia la prima risulta ridotta del 33% rispetto alla seconda, mentre il divario è più contenuto in Francia (meno del 10 percento) e in Germania (meno del 15 percento). Insomma, la generazione che si sta immettendo all’interno dei processi produttivi nel nostro paese è un terzo in meno rispetto a chi ha occupato sinora la parte centrale della forza lavoro. Nessun altro paese in Europa sta sperimentando un crollo di questa entità. Come ci siamo preparati sinora?

Questo processo di “degiovanimento”, finora trascurato, va considerata una delle sfide principali di tutto il paese, rispetto alla quale le nuove generazioni non vanno considerate il problema ma aiutate a diventare la soluzione. Formare bene i giovani, inserirli in modo efficiente nel mondo del lavoro, valorizzarne al meglio il contributo qualificato nelle aziende e nelle organizzazioni, consente di rispondere alla riduzione quantitativa dei nuovi entranti con un rafforzamento qualitativo della loro presenza nei processi che alimentano sviluppo economico, innovazione sociale, competitività internazionale. Frenerebbe, inoltre, la loro fuga verso l’estero e li metterebbe anche nelle condizioni di realizzare in modo più solido il loro progetti di vita, con conseguenze positive sulla formazione di nuovi nuclei familiari e sulla natalità.

Finora il nostro paese si è però rivelato tra quelli in Europa con politiche meno efficaci su questo fronte. E qui sta il secondo ordine di fattori che nel dopo pandemia si stanno ulteriormente complicando. E’ ben noto il fatto che il nostro paese da troppo tempo detiene il record in Europa di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano). Le cause vanno attribuite a limiti e inefficienze in tutto il percorso di transizione scuola-lavoro. La risposta non sta, però, solo nel rafforzamento dei centri per l’impiego. Come molte ricerche sul tema evidenziano, a monte c’è anche un deficit di formazione e di competenze di molti ragazzi che escono dal sistema dell’istruzione. Oltre alla preparazione culturale e tecnica, a fare la differenza tra chi rischia di trovarsi intrappolato nella condizione di Neet e chi, invece, trova la propria strada, è la debolezza delle soft skill (o delle life skill più in generale).

Proprio su questo tipo di competenze si registra il maggior peggioramento dopo l’impatto pandemico. I dati del Rapporto giovani 2022 dell’Istituto Toniolo, appena pubblicato, evidenziano come nel suo complesso la crisi sanitaria sia stata vissuta dai giovani come una grande esperienza collettiva negativa, che ha eroso in modo marcato le risorse positive interne e le competenze sociali in tutte le dimensioni. A diminuire è in particolare chi afferma di avere (“molto” o “moltissimo”) una “Idea positiva di sé” (scesi nei due anni di pandemia da 53,3% del 2020 a 45,9% nel 2022) ma anche chi ha “Motivazione ed entusiasmo nelle proprie azioni” (passati da 64,5 a 57,4%) e chi sa “Perseguire un obiettivo” (da 67,0 a 60,0%).

Il peggioramento è ancora maggiore per chi vive in contesti territoriali deprivati e con meno risorse socio-culturali di partenza. Da un lato questi giovani hanno bisogno di rispondere all’esperienza collettiva negativa mettendosi alla prova con esperienze concrete personali positive. D’altro lato proprio l’erosione delle life skill li rende ancor più fragili rispetto alla capacità di ingaggio e impegno nella partecipazione sociale e lavorativa.

Se, quindi, già prima della pandemia molti giovani si trovavano fuori dal radar delle politiche di attivazione, oggi il non farsi rintracciare rischia per molti di diventare intenzionale. A prevalere sembra essere il bisogno di ritagliarsi un tempo di ritrovata normalità del presente senza restrizioni e complicazioni, ma rischiano di aumentare disorientamento e vulnerabilità se non vengono aiutati a ridefinire le coordinate in cui ritrovare una propria progettualità. Il rischio è che la Zeta diventi una “ghosting generation”, demograficamente leggera e con i singoli membri portati a sottrarsi. Giovani connessi ma con deboli segnali di presenza e con bassa propensione a dar spiegazioni del perché chi li cerca non li trova  (non solo nella dimensione affettiva).

Molti si sottraggono anche (in questo caso soprattutto chi ha maggior formazione e più alte aspirazioni) perché lasciano i contesti – territori e organizzazioni – che non forniscono stimoli e valorizzazione all’altezza delle proprie aspettative. E qui si entra nel terzo ordine di fattori. Sempre i dati del Rapporto giovani, in coerenza con altri segnali emergenti, mostrano come la pandemia abbia accelerato anche un cambiamento nel sistema di priorità e indotto a ridefinire lo spazio strategico in cui collocare la propria azione nei processi di sviluppo economico e sociale, quindi anche rispetto a senso e valore da dare al lavoro.

Si tratta di un cambiamento che complica ancor di più i meccanismi, quantitativi e qualitativi, di confronto e incontro tra domanda e offerta. L’esito auspicato è che la debolezza demografica dei nuovi entranti possa favorire una crescente attenzione non solo rispetto a cosa possono portare nelle aziende in termini di competenze tecnologiche ma ancor prima a come riconoscere e valorizzarne le specificità antropologiche. Ciò significa dare più importanza, dal lato dell’offerta, a cosa sono portati a dare e desiderano essere rispetto a ciò che, lato domanda, ci si aspetta debbano conformarsi a fare (troppo spesso, finora, adattandosi al ribasso).

Da come il mondo del lavoro sarà in grado di gestire questo aumento di complessità dipende il destino di una generazione che oggi è al bivio tra essere lasciata diventare una ghosting generation ed essere aiutata a ricoprire un ruolo da protagonista nei processi di cambiamento e sviluppo del paese.

Un’anomalia da correggere con il piano di rilancio

L’Italia di inizio 2022 è uno dei paesi in Europa con più debole presenza delle nuove generazioni nei luoghi in cui si è messi nelle condizioni di contribuire alla crescita e allo sviluppo economico. Ma anche con meno giovani presenti nelle classi scolastiche fino a completare il percorso di istruzione secondaria di secondo grado, oltre che nelle aule universitarie fino a raggiungere con successo la laurea o un titolo di formazione terziaria professionalizzante (fornita dagli Istituti Tecnici Superiori).