Consigli non richiesti a chi vuole governare per fare ripartire economia, welfare e demografia. 

Dopo aver raggiunto estesi livelli di benessere per il ceto medio l’Italia ha utilizzato il presente per scelte di conservazione del passato

L’Italia è stata uno dei paesi maggiormente in grado di costruire, nei primi decenni del secondo Dopoguerra, condizioni di benessere per larga parte della popolazione partendo da povertà diffusa. La parte maggiore di questo salto l’abbiamo compiuta durante gli anni Cinquanta e Sessanta (e qualche pezzo degli anni Quaranta e Settanta), quelli appunto del boom economico e del baby boom. Si è trattato di un periodo così felice che quando ci si riferisce a esso si usano termini entusiastici quali “boom” e “miracolo economico”. Viene anche usata l’espressione “Trenta gloriosi” per indicare il positivo circolo virtuoso innescato, dal 1945 al 1973 tra economia, welfare e demografia. In tale periodo vengono messe solide basi del nostro benessere che però, dagli anni Ottanta in poi, anziché rinnovare abbiamo eroso: la crescita è diventata stentata, il welfare è entrato in crisi, la demografia è diventata negativa.

Insomma, in tale fase storica soffiava un vento forte che siamo riusciti a catturare alzando per bene le vele e imboccando la direzione giusta. Quando però il vento ha cominciato a cambiare noi non abbiamo riaggiustato la rotta, non abbiamo ben riposizionato le vele, non abbiamo imboccato con determinazione un percorso in grado di limitare i rischi e cogliere le opportunità dei tempi nuovi, in coerenza con le nostre potenzialità e specificità culturali.
Ci siamo fatti sorprendere dall’entrata in un mondo in cui il sistema produttivo diventava sempre meno centrato sulla fabbrica, sul posto dipendente e sicuro, su rapporti di lavoro chiari con riconosciute forme di rappresentanza collettiva; in cui il welfare doveva essere ripensato oltre le esigenze del maschio adulto breadwinner; in cui emergevano nuove opportunità, aspirazioni e relazioni di genere e generazionali.

Se tanto aveva avuto successo il modello sociale e di sviluppo dei primi decenni del secondo dopoguerra (i “Trenta gloriosi” appunto), molto meno l’Italia risulta in grado di interpretare il processo di crescita degli ultimi decenni del XX (e l’entrata nel XXI) secolo. E’ tutto un paese che via via si schiera in difesa (che perde lo slancio a far gol e si dispone a catenaccio verso il cambiamento, limitandosi a subire il meno possibile): crollano le nascite, aumenta la permanenza dei giovani nella famiglia di origine, si accentua l’invecchiamento della popolazione, aumenta il debito pubblico, diminuiscono le prospettive di crescita, aumentano le diseguaglianze, si deteriora la fiducia nei confronti della politica e delle istituzioni.

Le cause sono complesse e ben intrecciate, ma semplificando al massimo quello che accade è che dopo aver raggiunto estesi livelli di benessere per il ceto medio, questo paese, anziché utilizzare il presente per scelte (collettive e individuali) di rilancio verso il futuro, lo mette a servizio di scelte di conservazione del benessere passato (di presidio delle posizioni raggiunte).

Le nuove generazioni e le donne sono le componenti della popolazione che si trovano maggiormente sottovalorizzate in questo modello di sviluppo mancato, in questa Italia finita progressivamente fuori rotta. Tanto che a tutt’oggi presentiamo tassi di partecipazione femminile e giovanile tra i più bassi in Europa.

Per cambiare servono la capacità e il coraggio di rimettere in discussione strumenti, modalità e convinzioni che hanno consentito in passato di accumulare benessere. Operazione tanto più difficile quanto più il modello da superare è stato di successo nel consentire crescita e mobilità sociale. Ma meno si cambia, meno si cresce, più salgono i timori di perdere quanto acquisito, più i meccanismi di difesa si stratificano, con meno convinzione si investe su ciò che può aprire alla produzione di nuovo benessere.

Va aggiunto anche il fatto che il grande accumulo di ricchezza privata nel secondo Dopoguerra è avvenuto su basi culturali fragili. Ancor oggi continuiamo a presentare una percentuale di popolazione attiva con titolo di studio terziario tra le più basse in Europa. I dati dell’indagine Ocse – Piaac (Programme for the internationalassessement of adultcompetencies), ci dicono che l’Italia continua a essere tra i paesi avanzati con più alta percentuale di persone carenti di competenze necessarie per la comprensione, l’interpretazione e la produzione di conoscenze indispensabili per interagire con successo con i processi di trasformazione e innovazione di questo secolo. Questa fragilità non ha aiutato a decifrare i nuovi tempi, a ridefinire strumenti e reinterpretare funzioni, in una fase più matura e complessa del nostro percorso di crescita.

La difficoltà di leggere e governare il cambiamento (globalizzazione, innovazione tecnologica, immigrazione) ha fatto scivolare verso posizioni di chiusura sia chi sta bene ma si sente escluso dai benefici delle nuove opportunità, sia chi non sta bene ed è timoroso dell’impatto dei nuovi rischi. Così oggi solo una minoranza della popolazione in Italia si trova a essere convintamente alleata dei processi di apertura al nuovo.

L’atteggiamento di chiusura è stato inoltre favorito dalla crescente complessità e rapidità di cambiamento delle società moderne avanzate (aumento dell’incertezza), dall’indebolimento delle ideologie di riferimento (maggior disorientamento) e, più recentemente, dalla crisi economica (accentuazione di difficoltà e diseguaglianze). A questo quadro va aggiunto l’impatto delle trasformazioni demografiche che, in carenza di politiche adeguate, tendono a far aumentare la vulnerabilità (come l’invecchiamento della popolazione) e l’insicurezza (come l’immigrazione).

Nel contesto generale di questi mutamenti la dimensione chiusura-apertura è diventata, nell’interpretare l’orientamento delle scelte elettorali, più efficace del senso di appartenenza rispetto alla dimensione destra-sinistra.

Oggi, quello che può fare un partito o movimento in Italia che si candida a governare con l’obiettivo di produrre sviluppo, è partire dalla capacità di mettersi in sintonia con i timori di chi si chiude, ottenere il loro consenso, per poi fare politiche che dalla difesa dei rischi si aprano alle nuove opportunità, provvedendo riscontri concreti dei vantaggi collettivi che si possono ottenere. Ovvero si parte dalla difesa solida e si investe sul miglioramento dell’attacco.

Oppure, al contrario, partire dalla sintonia con le componenti aperte al nuovo mettendo in atto processi culturali e politiche sul territorio inclusive verso chi si trova arretrato sulla frontiera del cambiamento. In questo caso si parte da un attacco ben organizzato e si investe sul miglioramento della difesa.

In entrambi i casi l’obiettivo dovrebbe essere la costruzione di un modello sociale e di sviluppo in grado di mettere assieme crescita e riduzione delle diseguaglianze. Un modello che ci manca oramai da oltre quarant’anni.

Se invece le forze politiche che sono maggiormente capaci di rassicurare chi vuole chiudersi, una volta al governo sanno solo offrire maggior chiusura, non si ottiene crescita (senza riuscire a ridurre in prospettiva le diseguaglianze). E se i partiti più credibili per chi vuole aprirsi non sanno interpretare le istanze dell’inclusione, non si ottiene riduzione delle diseguaglianze (senza in prospettiva riuscire a produrre solida crescita). E su questo punto che il quadro politico è fermo assieme al paese.

Ora, dopo una lunga crisi, si sta alzando un nuovo vento. Ma se non usciamo dall’impasse in cui ci troviamo continueremo a ogni nuova elezione a bocciare chi per ultimo ha governato (e a trovarci ogni volta più poveri e con maggiori squilibri), anziché promuovere chi è in grado di proporre per l’Italia un percorso di sviluppo convincente (verso i cittadini-elettori) e coerente (con le profonde trasformazioni di questo secolo).

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