Il Futuro che (Non c’è) – Editoriale

Il successo di una azienda, prima ancora che dalla dotazione di nuove tecnologie, dipenderà nei prossimi decenni dalla capacità di lungimirante gestione della propria forza lavoro.

Il successo di una azienda, prima ancora che dalla dotazione di nuove tecnologie, dipenderà nei prossimi decenni dalla capacità di lungimirante gestione della propria forza lavoro. Questa convinzione, in combinazione con il processo di invecchiamento, ha fatto crescere negli ultimi anni l’attenzione verso l’«age management», inteso come insieme coerente di risposte che le organizzazioni possono dare per migliorare il contributo professionale dei singoli a tutte le età, comprese quelle più mature. L’Italia, come mostrano varie ricerche, è però in colpevole ritardo nell’affrontare concretamente questa cruciale sfida, non solo per la recessione che ha spostato l’attenzione delle imprese sul presente con approccio difensivo, ma per motivi anche strutturali di lungo periodo e culturali radicati. Non c’è dubbio però che le realtà che prima inizieranno ad agire positivamente in questa direzione, si troveranno nei prossimi anni con un vantaggio competitivo sulle altre.


Più che ragionare per categorie di età (come la stessa espressione «age management» porta a enfatizzare) il focus dovrebbe essere sul corso di vita, con l’obiettivo di valorizzare il meglio di ogni fase e gestire efficacemente i passaggi. Tenendo inoltre presente che le persone non si differenziano solo per età: esiste una grande eterogeneità individuale in termini di percorsi di professionali, di salute, di competenze e capacità di gestire il cambiamento.
Crescere in un mondo sempre più complesso e in continuo cambiamento richiede, in particolare, la necessità: di acquisire una formazione solida in partenza e un atteggiamento positivo e intraprendente nel costruire il proprio percorso professionale; di mantenere elevate le abilità che possono indebolirsi nel tempo e valorizzare l’arricchimento di esperienze e relazioni sviluppate nel proprio percorso; di cogliere l’opportunità di mutua contaminazione e cooperazione tra persone con sensibilità e competenze diverse; di mettere continuamente in discussione le mappe di lettura della realtà e le modalità di azione in essa, per raggiungere i migliori obiettivi all’interno di uno scenario con coordinate in continuo mutamento.
Sfruttare il più possibile i giovani e pagarli il meno possibile, dismettere il prima possibile i lavoratori maturi o continuare a tenerli pur demotivati e in condizione di obsolescenza, è la peggiore situazione in cui un sistema produttivo possa mettersi. Un paese che invece investe sul benessere delle persone e le mette nelle condizioni di contribuire ad alimentare nuovo benessere, espande le opportunità di tutti. Solo in settori chiusi e in un paese in declino (dove risorse e spazi rimangono fissi o si riducono) nuovi entranti e lavoratori maturi si trovano in competizione al ribasso.
Il lavoro per un paese è come il vento per una barca a vela. Se non soffia, la barca rimane ferma. Ma ciò accade anche se le vele, per imperizia, non sono ben disposte. È inoltre vero, citando Seneca, che nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove andare. In questi anni abbiamo sentito molte discussioni sul vento che mancava o che cambiava, ma poco si è ragionato concretamente sulla direzione da intraprendere. Il lavoro che serve non è il vento che consente alla barca di non rimanere ferma, ma quello che aiuta a raggiungere un luogo migliore rispetto al punto in cui ci si trova.

Rispondi

  • (will not be published)