Il Paese al bivio del declino. Non bastano le misure in pista

L’analisi di Alessandro Rosina

Due figli per donna. E’ il livello che consente di mantenere, nelle società mature avanzate, un equilibrato rapporto tra generazioni. L’Italia è uno dei paesi maggiormente crollati sotto tale soglia negli ultimi due decenni del secolo scorso. Era possibile evitarlo? Si. Molti stati, come Francia e Regno Unito, sono riusciti a mantenere il tasso di fecondità poco sotto valore.

L’Italia risulta, inoltre, tra i paesi che nei primi due decenni di questo secolo più sono rimasti ancorati su valori molto bassi (con segnali timidi di recupero prima della Grande recessione e ulteriore crollo negli anni successivi). Era possibile un percorso di ripresa verso livelli medi europei? Si. La Germania e altri stati dell’Est Europa, dopo essere scesi su livelli anche inferiori ai nostri, hanno affrontato meglio la precedente crisi e messo in campo politiche efficaci di sostegno alla natalità. Si sono così trovati ad affrontare la pandemia con una situazione demografica più favorevole rispetto al 2008.
Ora tocca all’Italia dimostrare che, dopo l’impatto della crisi sanitaria, si può far meglio degli altri paesi. Se non altro perché siamo quelli che hanno maggiormente da perdere se le dinamiche demografiche non cambiano. Le nascite sono, infatti, crollate così in basso – con struttura demografica talmente compromessa – che allinearsi semplicemente alle variazioni medie europee produrrebbe per noi risultati molto più modesti. Sarebbe, ad esempio, da considerare un buon esito se l’Europa riuscisse a salire dall’attuale valore medio di 1,5 figli a 1,75 nel 2030. Ma per l’Italia arrampicarsi nello stesso arco di tempo da 1,24 a quasi 1,5 significherebbe rimanere su livelli insoddisfacenti, senz’altro insufficienti per invertire in modo solido l’andamento delle nascite. Più degli altri paesi, come conseguenza della denatalità passata, sono in riduzione le persone al centro dell’età riproduttiva. Questo significa che a parità di figli per donna è più basso il numero di nascite che si ottiene in Italia, perché diminuiscono le potenziali madri. E più tempo passa e più questo effetto strutturale pesa. Le attuali 35enni sono circa 334 mila, oltre 100 mila in meno delle 45enni, ma quasi 50 mila in più rispetto alle 25enni.
Questo ci dice che abbiamo bisogno di misure sia incisive che tempestive. Chi ha 30 anni inoltrati deve poter trovare subito incoraggiamento a realizzare scelte che sinora ha rinviato, prima che si trasformino in rinuncia definitiva. Nel frattempo bisogna mettere le attuali 25enni nelle condizioni di non rinviare troppo le loro scelte desiderate, per poter arrivare ad aggiungere un figlio in più anziché accontentarsi di uno in meno. Solo così il tasso di fecondità italiano potrà salire oltre i livelli medi europei e invertire la tendenza negativa delle nascite. Tanto più se il nostro paese anziché perdere giovani sarà in grado di attrarne, inserendoli nei propri percorsi di crescita e sviluppo.
Dobbiamo però essere consapevoli che le attuali proposte in campo non sono ancora all’altezza di questo obiettivo. L’assegno unico universale, pur andando nella direzione giusta, rischia di prevedere importi modesti per larga parte del ceto medio. Gli investimenti sui servizi per l’infanzia presenti nel PNRR sono tali da portarci alla copertura del 33%, che era l’obiettivo europeo del 2010, non certo di raggiungere Francia e Svezia. Serve, inoltre, l’impegno almeno a dimezzare l’incidenza dei Neet (i giovani che non studiano e non lavorano, di cui deteniamo il record in Europa): favorire un pieno ingresso nel mondo del lavoro è un prerequisito per la realizzazione dei propri progetti di vita. Accontentarsi di fare un po’ meglio di prima non ci consentirà di evitare lo scenario peggiore.

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