La priorità di un Paese che non forma né assume i suoi pochissimi figli

La transizione demografica

L’Italia ha conquistato nello scenario mondiale un posto di punta nella transizione demografica quando, nella prima metà degli anni Novanta, è diventata il primo paese a trovarsi con le persone in età da pensione in quantità superiore a quelle in età scolastica. Nel dibattito pubblico e nell’agenda politica la questione demografica è entrata soprattutto come preoccupazione per il processo di invecchiamento della popolazione.

L’irresistibile ascesa del numero degli anziani, sulla spinta dell’aumento della longevità, ha costretto a mettere in discussione alcune basi importanti del sistema di welfare costruito nei decenni di espansione del benessere nel secondo dopoguerra. Il sistema a ripartizione, introdotto quanto gli occupati erano molti e i pensionati relativamente pochi, è via via diventato sempre meno sostenibile. Con le riforme degli anni Novanta si è avviato il passaggio dal regime retributivo a quello contributivo e si è iniziato a spostare in avanti la conclusione della vita lavorativa. Da allora l’età di accesso alla pensione è rimasta una “vexata quaestio”, conseguenza della continua tensione tra: vincoli della finanza pubblica, opportunità di una lunga vita attiva, aspettative di aziende e lavoratori, non ultime le esigenze di consenso delle diverse forze politiche. L’attenzione verso la crescita della componente anziana ha portato anche a cercare soluzioni su come valorizzare quanto accumulato in passato dalle generazioni più mature, sia in termini di esperienza nel mondo del lavoro (nel contesto delle pratiche di Age management), sia di ricchezza disponibile (come leva per la Silver economy).

Concentrata su come gestire la ricchezza disponibile passata, l’Italia ha lasciato ai margini la questione di come la transizione demografica metta ancor più in discussione le condizioni per generare nuova ricchezza e nuovo benessere. Il paese non può essere competitivo e cogliere la sfida dello sviluppo sostenibile, in tutte le sue accezioni, solo tenendo sotto controllo la spesa sociale e mettendo a frutto la spesa privata degli anziani. Sarebbe come far procedere un’auto solo gestendo al meglio la spinta inerziale che deriva dal passato senza occuparsi di come rinnovare le fonti che alimentano il motore. Se è ben vero che gli anziani continueranno ad aumentare, l’impatto principale dei cambiamenti demografici sulla società e sull’economia lo sta assumendo sempre di più la riduzione drastica della popolazione in età lavorativa. Non ce ne siamo occupati per tempo e ora gli squilibri strutturali diventeranno sempre più evidenti nel mondo del lavoro e rilevanti nei processi di sviluppo.

Per farsi un’idea del grande passaggio che stiamo vivendo e della sfida che pone, basti pensare che al censimento del 1951 la popolazione totale era di circa 47 milioni e che lo sviluppo nei decenni successivi è avvenuto con una popolazione crescente ma soprattutto con una grande abbondanza di giovani. Gli under 30 erano la maggioranza dei residenti. Nella fase nuova in cui ci troviamo la popolazione è in continua diminuzione con la maggioranza degli abitanti che si sta spostando oltre i 50 anni. Nel 2070, secondo lo scenario mediano delle previsioni Istat, torneremo ad essere 47 milioni, proprio come nel 1951, ma con una struttura per età completamente ribaltata. Non solo domineranno demograficamente gli over 50, ma la fascia matura più attiva, quella dai 50 ai 70 anni sarà superata da quella ancor più anziana (gli over 70).

La domanda centrale da porsi è quindi: quali politiche servono per non rendere tali squilibri insostenibili e poter continuare a generare nuovo benessere in condizioni del tutto diverse da quelle che hanno consentito la crescita passata?

Rispetto al contenimento degli squilibri il nuovo Governo di destra sembra particolarmente attento al tema della natalità, mentre è più cauto sul contributo dell’immigrazione. Riguardo alle leve per rendere più efficiente l’utilizzo del potenziale della forza lavoro, in controtendenza è la posizione sull’età di accesso alla pensione, mentre chiara – come ribadito anche nel discorso di Giorgia Meloni alla Camera per la fiducia, sembra la consapevolezza della necessità di rafforzare la transizione scuola-lavoro.

Dato che gli effetti positivi della natalità sul mercato del lavoro si vedranno solo nel tempo (ma proprio per questo è cruciale agire subito) e che non si agirà sull’allungamento della fase finale della vita lavorativa, ancor più urgente diventa la necessità di favorire l’ingresso e rafforzare la fase iniziale, risollevando l’occupazione giovanile e migliorando la valorizzazione del capitale umano delle nuove generazioni.

Il report Ocse “Education at a Glance 2022” mostra, del resto, come i percorsi formativi e professionali dei giovani italiani siano ulteriormente peggiorati dopo la crisi sanitaria, soprattutto nella fascia 25-34 anni, quella cruciale anche per le scelte di autonomia e formazione di una famiglia. Il grande disagio di molti giovani che non studiano e non lavorano (i NEET) non può essere risolto con la logica dell’assistenzialismo, ma nemmeno considerandoli solo un problema sociale e reprimendo le devianze. Più che nelle altre economie avanzate il livello di istruzione e, al netto di ciò, il destino occupazionale, dipendono in Italia dalle risorse socio-culturali della famiglia in cui capita di nascere. Tutti meritano un’opportunità, a partire dalla scuola, oltre che una seconda possibilità quando escono fragili e con competenze non direttamente spendibili sul mercato del lavoro. Ma va anche resa più efficace l’inclusione nei processi di sviluppo del paese dei giovani ben formati, qualsiasi sia il contesto di origine. Solo così si dà alle nuove generazioni il segnale che l’Italia, dopo la pandemia e con le risorse di Next Generation Eu, vuole iniziare una nuova fase di sviluppo rendendo le sensibilità, le competenze e l’impegno dei giovani il principale carburante per generare nuovo benessere.

Il report Istat, appena pubblicato, su istruzione e ritorni occupazionali, ci ricorda che il tasso di occupazione dei laureati è sensibilmente più basso rispetto alla media europea, soprattutto per gli under 35, le donne e al Sud. Più in generale i dati evidenziano come quantità e qualità del lavoro per le nuove generazioni possano solo rafforzarsi assieme, così come investimento sulla formazione del capitale umano e sua valorizzazione nella società e nell’economia. Ci sono ampi margini per crescere se si va in questa direzione.

Ridurre almeno di un terzo il tasso di NEET entro i prossimi cinque anni e allineare il tasso di occupazione a tre anni dal diploma o dalla laurea ai livelli medi europei dovrebbero entrare tra gli impegni concreti di un Governo che, al di là dei nomi da dare ai Ministeri, voglia interpretare con la giusta determinazione le urgenze e le sfide di questa fase storica del nostro paese.

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