La sharing economy è molto più di una app

Chiamarla “economia della condivisione” è riduttivo perché si tratta di un cambiamento che va oltre l’economia.

Fino a pochi anni fa nessuno parlava di sharing economy, oggi è uno dei temi più in voga nei dibattiti sui nuovi processi di cambiamento economico e sociale. C’è chi parla di nuovo paradigma e chi di nuovo capitalismo svuotato dal concetto di possesso. La proprietà nelle epoche passate garantiva sicurezza e potere.

Nella società agricola la proprietà era un fine: il benessere era direttamente legato al possesso di beni, persone comprese. La moglie stessa era assoggettata al marito. Con la società capitalista la proprietà da fine diventa un mezzo. Più che i beni accumulati conta la ricchezza che ne deriva e quello che con tale ricchezza si può ottenere. Si entra in un’epoca in cui tutti potenzialmente si possono arricchire e attraverso ciò arrivare ad ottenere quello che si desidera. Con la sharing economy la proprietà smette di essere anche un mezzo. Avere cose e star bene sono sempre meno in stretta corrispondenza. Si può vivere bene anche senza il possesso del bene. Anzi, la proprietà può essere un vincolo che frena scelte di miglioramento della propria condizione. La logica è un po’ quella della biblioteca pubblica che amplia notevolmente le possibilità di conoscenza e cultura rispetto al limitarsi ciascuno a leggere solo i libri acquistati in proprio. Solo che adesso la biblioteca è virtuale e metaforicamente è come se i libri presenti in ciascuna casa formassero una unica grande libreria comune a cui tutti possono avere accesso. La logica applicata ai libri ora la tecnologia la sta rendendo estendibile a una sempre più ampia gamma di beni e servizi.

Chiamarla “economia della condivisione” è riduttivo perché si tratta di un cambiamento che va oltre l’economia. L’aspetto dei costi più convenienti rispetto al mercato di consumo tradizionale è solo uno degli aspetti ma non quello più caratterizzante. Di maggior rilievo è il suo essere in sintonia con un nuovo approccio nei consumi e nel modo di creare e promuovere benessere. I temi dell’ambiente, del miglior uso delle risorse, del welfare comunitario, di un nuovo modello di crescita più sostenibile sono tutti coerenti con questo cambiamento. I tratti salienti sono il mettere la persona al centro, il suo essere in relazione attiva con gli altri, il maggior valore dato alla qualità dell’esperienza rispetto alla quantità di consumo. Un nuovo modello sociale, quindi, più che una nuova economia.

La trasformazione è comunque in atto e non è esente da potenziali rischi. Più che guidata, dato che nasce dal basso e produce scenari nuovi non predeterminabili, va accompagnata con una giusta misura dell’azione pubblica. Non si tratta solo di “non nuocere” e quindi rimuovere regole e vincoli che frenano il cambiamento. Serve anche una capacità di coordinamento discreto dall’alto, come cerca di fare il Comune di Milano, in grado di favorire la crescita degli aspetti positivi  e inclusivi per evitare che si producano nuove diseguaglianze nelle possibilità di accesso a beni e servizi. Ma ancor più serve una capacità culturale di promuove un verso spirito della condivisione, a partire dai comportamenti quotidiani ancora troppo spesso dominati dall’indifferenza civica e cinica. Se si vuole che la sharing economy non sia guidata solo da quello che conviene ma da una nuova consapevolezza del valore dello stare e fare bene assieme, serve qualcosa di più di una app che ti dice chi può darti quello che ti serve.

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