L’implosione demografica del Sud

Il Mezzogiorno ha tradizionalmente rappresentato una riserva demografica per l’Italia e, nei decenni passati, la fecondità, pur declinando, è rimasta al di sopra della media nazionale. A partire dal 1995 tale tendenza ha cominciato a invertirsi, fino al sorpasso avvenuto nel 2006, quando per la prima volta la fecondità al Nord ha superato quella al Sud.

Il Mezzogiorno ha tradizionalmente rappresentato una riserva demografica per l’Italia e, nei decenni passati, la fecondità, pur declinando, è rimasta al di sopra della media nazionale. A partire dal 1995 tale tendenza ha cominciato a invertirsi, fino al sorpasso avvenuto nel 2006, quando per la prima volta la fecondità al Nord ha superato quella al Sud. Le dinamiche che nel Mezzogiorno hanno condotto a questo rovesciamento vanno dalla minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro alle difficoltà dei giovani a trovare impiego e, di conseguenza, a metter su famiglia, alla necessità sempre più frequente di cercare fortuna all’estero. Bassa natalità e forte mobilità delle nuove generazioni sono alla base del fenomeno del degiovanimento, che rischia di avvitare il Meridione in una spirale senza ritorno. Per invertire la rotta prima che sia tardi, è necessario promuovere un modello sociale che rimetta al centro le persone.

Uno smottamento demografico

«Fino a qualche anno fa, tra i record negativi del Mezzogiorno non c’erano quelli demografici, anzi. Storicamente il Sud è stato una riserva demografica per il nostro paese». Così scrivevamo nei primi mesi del 2006 in un articolo su “lavoce.info”, mettendo in evidenza – sulla scorta degli andamenti recenti fino ai dati parziali del 2005 – come si stesse chiudendo la lunga epoca in cui l’Italia meridionale era stata una delle aree più prolifiche non solo d’Italia ma anche d’Europa. Una rivoluzione della geografia dell’Italia riproduttiva del tutto imprevista. Basti pensare che le previsioni Istat con base 2001 delineavano uno scenario in cui il Tasso di fecondità totale (TFT) «mantiene una discreta variabilità a livello regionale, raggiungendo i livelli più elevati nelle Regioni tradizionalmente più prolifiche (Campania, Calabria e Sicilia), ai quali corrispondono età medie alla nascita ben al di sotto della media nazionale; per contro, nelle Regioni del Centro-Nord (…) le previsioni del TFT sono più basse». Pochi anni dopo queste affermazioni la realtà risultava completamente diversa. Il 2005 è l’anno in cui la forbice tra Sud e Nord si chiude e i livelli di fecondità iniziano a invertirsi, mentre secondo le previsioni Istat in tale anno il numero di figli per donna avrebbe dovuto trovarsi attorno a 1,6 nel Sud e a 1,2 nel Nord.

Ma com’è avvenuto questo epocale sorpasso e con quali implicazioni? Il crollo più rilevante della fecondità italiana avviene tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta. Nel 1977 la fecondità media nazionale scende definitivamente sotto i due figli e a metà anni Ottanta sotto un figlio e mezzo. La riduzione interessa molti paesi sviluppati, ma avviene in modo più accentuato nel nostro. A inizio degli anni Novanta la fecondità risultava essere pari a 1,55 figli per donna nell’Europa occidentale. Il Sud Italia, con una media di 1,7 figli, si trovava sostanzialmente ancora in linea con i paesi più prolifici (come Francia, Regno Unito, Svezia), mentre il Nord Italia, con una fecondità inferiore a 1,2 figli, era già sceso su livelli tra i più bassi al mondo. Negli anni successivi, però, anche il Meridione scende sotto i livelli europei e l’Italia complessivamente tocca il suo punto più basso nel 1995. Le differenze territoriali rimangono in ogni caso a vantaggio del Sud (1,41 figli rispetto alla media italiana di 1,19 con un Nord sceso ulteriormente a 1,05).

Fino al 1995 il declino riproduttivo è avvenuto seguendo un percorso pressoché parallelo tra le varie ripartizioni geografiche. Il che significa che fino a quel momento la geografia della produzione delle nascite è rimasta sostanzialmente inalterata. A partire, però, da tale anno, per la prima volta gli indicatori congiunturali della fecondità del Nord e del Sud iniziano invece a prendere due diverse direzioni. Nell’Italia settentrionale la tendenza si inverte e inizia un processo di risalita, mentre nel Meridione l’andamento rimane negativo. L’esito di tali due opposte dinamiche porta prima all’annullamento del secolare vantaggio riproduttivo del Sud e successivamente, a partire dal 2006 appunto, al sorpasso del Nord.

Natalità e occupazione femminile

Quello che è accaduto all’interno del territorio nazionale riflette quanto già da qualche tempo vale su scala europea: i contesti con maggior livello di benessere e crescita più equilibrata tendono sempre più a presentare elevati valori sia nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro che nella fecondità. Non a caso l’Italia, nel quadro occidentale, è tra i paesi che economicamente crescono meno, che meno valorizzano la risorsa femminile e che producono meno figli. Se nel Nord Italia qualche segnale positivo iniziava a intravvedersi prima della crisi, il Mezzogiorno non è per nulla riuscito a inserirsi in questo percorso virtuoso.

Un modo efficace per individuare dove passa la faglia che separa le due Italie, condizionando le possibilità di costruzione di un solido futuro, è proprio la combinazione dei livelli di fecondità e di partecipazione delle donne. Esiste, infatti, una evidente dicotomia nel nostro paese che vede da una parte le Regioni che nell’entrata nel nuovo secolo hanno sperimentato una fecondità in declino e hanno mantenuto tassi di attività femminile sotto la media nazionale e dall’altra parte le Regioni che, invece, presentano valori positivi su entrambi tali indicatori.

Il raffronto tra Campania ed Emilia Romagna esemplifica bene le due Italie e le differenze nel legame tra fecondità e partecipazione femminile. Nel 1995 il numero medio di figli per donna era pari a 1,51 nella prima e a 0,97 nella seconda, nel 2009 – quando ancora non erano evidenti i contraccolpi della crisi – i valori erano diventati rispettivamente 1,43 e 1,50. Nello stesso periodo il tasso di occupazione femminile in Campania rimaneva ben sotto il 30%, mentre arrivava a superare il 60% in Emilia Romagna (in linea con la media europea). Questo diverso percorso seguito dalle due Regioni è coerente con il fatto che, mentre nella seconda le politiche di conciliazione risultano essere relativamente estese ed efficienti, nella prima continuano a essere fortemente inadeguate e carenti.4 Dinamiche opposte che condizionano anche le possibilità di sviluppo dei prossimi decenni per le implicazioni che in prospettiva producono sulla struttura della popolazione.

Fare famiglia e lavoro giovanile

A pesare sulle opposte traiettorie territoriali della fecondità del Sud rispetto al Nord c’è, oltre al minor numero di nascite da madre straniera, anche il continuo rinvio dei progetti di vita e di formazione di nuovi nuclei familiari da parte delle generazioni più giovani, che si trovano a fronteggiare una condizione sempre più incerta nel mercato del lavoro. Anche su questo aspetto si è assistito a un ribaltamento nel passaggio dal vecchio al nuovo secolo. Per tutto il XX secolo a rimanere a vivere con i genitori più a lungo sono stati, infatti, i giovani delle Regioni centrosettentrionali e sui motivi di tale permanenza dominavano i fattori culturali. Negli ultimi quindici anni è, invece, cresciuto sensibilmente il peso delle difficoltà legate alla carenza di un lavoro stabile e, soprattutto, di un reddito adeguato e continuativo per riuscire a mantenersi. Fattori, questi, più accentuati nel Meridione. I più aggiornati dati Istat evidenziano come, nella fascia d’età 25-34, la percentuale di persone che vive con i genitori sia inferiore al 40% in quasi tutte le Regioni del Nord e superiore al 50% in quasi tutte quelle del Sud. Anche in questo caso, quindi, la geografia del fenomeno è mutata ed è andata a sovrapporsi sempre più con quella della bassa occupazione.

Chi poi non rimane a vivere con i genitori se ne va lontano. Negli ultimi anni si è, infatti, assistito anche a una ripresa sostenuta dei flussi di mobilità da Sud a Nord e verso l’estero per studio o per lavoro. Dalla metà degli anni Novanta fino all’inizio della crisi circa due milioni di persone hanno lasciato il Mezzogiorno verso altre Regioni italiane. Ad andarsene dalle Regioni meridionali sono spesso i più dinamici e con migliori performance scolastiche, in cerca di opportunità di formazione e professionali di qualità superiore. Inoltre, sono circa 250.000 quelli che si sono trasferiti direttamente all’estero. Molti, però, decidono di andare oltre confine in un secondo tempo, dopo aver fatto tappa nel Nord. Per migliorare la conoscenza del fenomeno, l’associazione ITalents ha condotto, assieme al Comune di Milano nel 2011 e con l’Agenzia Campania Innovazione nel 2013, due indagini sui giovani espatriati – per un totale di circa 1800 rispondenti –, con l’obiettivo di esplorare i motivi della scelta di andare all’estero e le difficoltà che frenano il ritorno. I risultati ottenuti evidenziano che a far la differenza non è tanto la remunerazione (in media del 50% più alta oltre confine) ma ancor più la maggior meritocrazia, le carriere più trasparenti e i migliori strumenti per svolgere bene il proprio lavoro. I giovani italiani, come mostrano i dati della stessa indagine, sono molto legati alla loro terra, considerano l’Italia uno dei paesi più belli al mondo, per il clima, il cibo, le relazioni familiari e umane in generale. Questo vale ancor di più per i giovani meridionali. Molti di essi, dopo un’esperienza all’estero, sarebbero ben disposti a tornare, se ci fossero condizioni minime adatte, per diventare protagonisti dello sviluppo economico e culturale della propria Regione. Assieme a misure fiscali (come quelle previste dalla legge 238/2010 “Controesodo”) servono misure incisive di attrazione, che consentano a chi torna di sentirsi inserito in un circolo virtuoso di miglioramento della propria condizione e del territorio, non perché questo sia il luogo in cui gli è capitato di nascere, ma perché è quello in cui ha scelto di vivere.

La spirale del degiovanimento

Una delle principali implicazioni delle dinamiche demografiche degli ultimi decenni – in particolare della persistente bassa natalità e della mobilità delle nuove generazioni in uscita – è il “degiovanimento”, vale a dire la riduzione della presenza quantitativa delle nuove generazioni nella popolazione. Le previsioni più recenti ci dicono che nei prossimi 20 anni il Mezzogiorno perderà quasi un giovane su quattro. Se estendiamo ancora l’orizzonte, in valori assoluti, gli under 30 erano nel complesso oltre 10 milioni nel 1950, sono scesi attualmente sotto i 7 milioni e si ridurranno a meno di 5 milioni entro la metà di questo secolo. Al contrario, la popolazione anziana è in forte accelerazione. Gli over 60 nel 1950 erano meno di 2 milioni, sono saliti attualmente a oltre 5 milioni e nei prossimi anni surclasseranno gli under 30 fino ad arrivare a più di 7,5 milioni nel 2050.

Tra le implicazioni economiche rilevanti del degiovanimento e dell’invecchiamento vi sono anche le ripercussioni sull’evoluzione dei consumi e dei risparmi, con conseguenti ricadute sull’attività produttiva e sull’accumulazione di capitale e quindi, infine, sulla crescita economica. Anche sulla relazione tra cambiamenti strutturali della composizione per età della popolazione italiana, condizioni economiche degli anziani e tasso di risparmio pesano, in prospettiva, differenze territoriali e generazionali.7 Ciò che c’è di nuovo nella questione meridionale è, quindi, il fatto che negli ultimi anni il Sud è entrato in una fase di crisi demografica che si affianca e si intreccia negativamente con quella economica. Nascono sempre meno figli, i migliori se ne vanno e quelli che restano si trovano sempre più svantaggiati. Va, inoltre, aggiunto il rischio di povertà infantile, sensibilmente maggiore nel Meridione rispetto al resto del paese. Un dato confermato anche dalle classifiche UNICEF sul benessere materiale dei bambini. Bambini anche sempre più poveri di conoscenza, come testimoniano i risultati dell’indagine PISA sui paesi OCSE. «Nel complesso, difficilmente si può trovare un’area nel mondo occidentale entrata in una spirale così negativa di disinvestimento in capitale umano in termini quantitativi e qualitativi».

L’urgenza di una inversione di rotta

La crisi economica ha aggravato ulteriormente la questione demografica meridionale, facendola entrare con enfasi nel dibattito pubblico grazie soprattutto alla rilettura allarmistica fornita da Svimez e Istat. Nel suo ultimo rapporto sull’economia del Mezzogiorno, la Svimez parla di uno “stravolgimento demografico”, uno “tsunami dalle conseguenze imprevedibili” e sottolinea i rischi di “desertificazione umana e industriale”. Si evidenzia come la curva delle nascite sia scivolata sotto quella dei decessi, producendo un bilancio naturale negativo meno compensato, rispetto al Nord, dal contributo dell’immigrazione. Il “Rapporto annuale 2014” dell’Istat dedica un lungo paragrafo del quarto capitolo al dualismo demografico. Vi si afferma che si è prodotto un “disinvestimento riproduttivo” che dal punto di vista culturale si configura come «un abbandono – imprevedibile nella rapidità con cui si è realizzato – di comportamenti tradizionali consolidati».

I dati nel complesso evidenziano come, mentre il Nord si avvia verso una condizione vicina alla stazionarietà, anche con il contributo dell’immigrazione, «il Mezzogiorno volge verso un progressivo declino, a meno di politiche che restituiscano prospettive» per questa area del paese. Un monito che, a distanza di tempo, ripropone quanto scrivevamo nel 2006 nel testo citato all’inizio di questo articolo. Più tempo passa, però, più diventa difficile invertire la rotta, soprattutto quando si ha a che fare con dinamiche demografiche che producono effetti nel medio-lungo periodo. La risposta non può che essere la costruzione di un modello sociale e di sviluppo che rimetta al centro le persone, che promuova la loro capacità di essere allo stesso tempo destinatari e costruttori di benessere nel territorio in cui vivono e operano. In diverse realtà del Mezzogiorno alcuni segnali positivi in questa direzione stanno emergendo. Da qui è necessario ripartire per ritrovare fiducia in un processo rigenerativo in grado di riaccendere e rimettere in gioco energie e intelligenze disperse o sopite.

 

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