Meno nati, meno attivi?

I dati ci dicono che il rapporto tra over 65 e popolazione tra i 20 e i 64 anni nella popolazione mondiale è salito da valori attorno al 10% nel 1960 al dato attuale superiore al 15%, con la prospettiva di arrivare oltre il 28% nel 2050 secondo lo scenario centrale delle Nazioni Unite.

L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva (indice di dipendenza degli anziani) è uno di quelli guardati con più attenzione dalle economie avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si fa crescere l’economia (e si fa funzionare il sistema di welfare) a quello dell’età in cui maggiormente si assorbono risorse pubbliche per assistenza sanitaria e pensioni. I dati ci dicono che il rapporto tra over 65 e popolazione tra i 20 e i 64 anni nella popolazione mondiale è salito da valori attorno al 10% nel 1960 al dato attuale superiore al 15%, con la prospettiva di arrivare oltre il 28% nel 2050 secondo lo scenario centrale delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019).

La globalizzazione dell’invecchiamento della popolazione
L’Africa è il continente con transizione demografica più tardiva, quindi quello in cui tale indicatore peggiorerà di meno nei prossimi decenni, arrivando a superare il 10% solo verso la metà del secolo. Molto diversa la situazione del mondo occidentale. Il Nord America dagli anni Sessanta al 2020 ha subito un raddoppio, passando dal 14% al 28%, con un dato proiettato al 2050 pari al 41%. Ancor maggiori gli squilibri generazioni europei, che corrispondono a un indice di dipendenza degli anziani arrivato al 32% e con prospettiva di salire oltre il 53% entro i prossimi trent’anni. All’interno dell’Europa il dato peggiore è quello dell’Italia, vicino al 40% e destinato ad avvicinarsi al 75% entro il 2050. A livello mondiale a distinguersi è il Giappone, che nello stesso orizzonte temporale è atteso passare dal 52% a oltre l’80%. La Cina presenta attualmente un peso degli anziani sulla popolazione attiva ancora relativamente basso, inferiore al 20%, ma è previsto salire vicino al 50% nel corso della seconda metà del secolo, per poi continuare fin quasi al 65% nei decenni successivi.

Verso un indebolimento della popolazione in eta’ attiva: l’europa
Se fino agli anni più recenti ad alimentare la crescita dell’indice di dipendenza degli anziani è stato soprattutto l’aumento del numeratore (le persone di 65 anni e oltre), nei prossimi anni e decenni alla sua spinta verso l’alto contribuirà sempre più la diminuzione del denominatore. La consistenza della popolazione in età lavorativa nel mondo occidentale è stata favorita dalle generazioni nate fino all’epoca del “baby boom”, che ora si stanno spostando in età anziana.

In Europa la fascia 20-64 è rimasta sopra il 60% della popolazione totale fino alla fine del decennio scorso. Andrà però nei prossimi decenni progressivamente a ridursi fino al 52,4% nel 2050 – sempre secondo lo scenario medio delle Nazione Unite – per poi assestarsi poco sopra il 50% nella parte finale del secolo. La perdita maggiore è concentrata tra il 2020 e il 2040 con una riduzione di 5 punti percentuali (da 59,8% a 54,8%).

Se questa riduzione è già scritta nelle dinamiche della natalità passata (i ventenni e oltre del 2040 sono già nati), sull’evoluzione della popolazione attiva dopo il 2040 le dinamiche delle nascite future possono ancora incidere, tanto più quanto più in avanti si sposta l’orizzonte temporale. Il livello di equilibrio tra generazioni è attorno ai due figli per donna. Ma è soprattutto dove il tasso di fecondità si trova persistentemente posizionato sotto 1,5 che gli squilibri risultano particolarmente accentuati andando a indebolire, generazione dopo generazione, il potenziale della forza lavoro a fronte di una componente anziana in aumento.

La Svezia è scesa sotto la media dei due figli per donna a fine anni Sessanta, anticipando il resto del continente. Dopo essere scivolata vicino a 1,5 alla fine del XX secolo, grazie alla continua sperimentazione di politiche di sostegno alla natalità e di conciliazione tra lavoro e famiglia, è riuscita a riportarsi su valori tra i più alti in Europa nel corso dei dieci anni successivi. Come conseguenza di queste dinamiche sarà uno dei Paesi europei che meno vedranno indebolirsi nel prossimo futuro la popolazione in età lavorativa. L’incidenza passerà dal 57% circa attuale al 54% nel 2050, mantenendosi sopra il 50% negli ultimi decenni del secolo. Anche la Germania ha evidenziato una inversione di tendenza della fecondità, passando da un numero medio di figli pari a 1,33 nel 2006 ad arrivare in dieci anni a riportarsi sopra 1,5, superando anche la media europea. L’investimento su politiche familiari assieme alla gestione di rilevanti flussi migratori, ha consentito di contenere la riduzione della componente attiva (l’incidenza attesa è attorno al 52% a metà secolo).

Opposto è il caso dell’Italia, che si trova da oltre 35 anni sotto la soglia di 1,5 e che ha visto un peggioramento ulteriore nelle dinamiche più recenti, consolidandosi come uno dei Paesi con più bassa fecondità dell’Unione europea. Come conseguenza, la popolazione attiva italiana è prevista subire un crollo particolarmente accentuato, passando dall’attuale 59% al 48,4% nel 2050, sempre secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, fino a stabilizzarsi attorno al 47% nella parte finale del XXI secolo.

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