Oltre le competenze. Come valorizzare i giovani all’interno delle imprese

Alla base del mondo che cambia sta il rinnovo generazionale. Le nuove generazioni, ancor più nella società del cambiamento continuo in cui viviamo, non vengono a sostituire quantitativamente quelle precedenti, ma a portare il loro sguardo nuovo sul mondo.

Il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro è un tema di crescente rilevanza nelle economie mature avanzate. A sentirlo di più sono i paesi e i territori con sistema produttivo più dinamico, più aperti al cambiamento e all’innovazione, con maggior potenziale di sviluppo. In tali economie alta è la domanda di energie ed intelligenze nuove che alimentino i processi di crescita, in particolare del capitale umano delle nuove generazioni da integrare con l’esperienza dei lavoratori più maturi. Ma a sentire ancor più il disallineamento sono e saranno le economie povere di tale capitale umano. Ovvero carenti di giovani ben preparati e qualificati, con competenze utili oggi e domani. Soprattutto se non dotate di sistemi esperti in grado di orientare chi entra nel mondo del lavoro, riqualificare dove necessario, favorire, in definitiva, la possibilità che domanda e offerta si incontrino al punto più alto tra ciò di cui le aziende hanno bisogno e ciò che i nuovi entranti possono portare. L’Italia, come ben noto, è uno dei paesi in Europa che più soffre di queste carenze. Con conseguente alto numero di Neet (giovani che non studiano e non lavorano) e crescente difficoltà del sistema produttivo di alimentare i propri processi di crescita con personale qualificato.

Non è solo, però, una questione quantitativa. Sta, infatti, aumentando di importanza la dimensione qualitativa sui meccanismi di incontro tra domanda e offerta.

Alla base del mondo che cambia sta il rinnovo generazionale. Le nuove generazioni, ancor più nella società del cambiamento continuo in cui viviamo, non vengono a sostituire quantitativamente quelle precedenti, ma a portare il loro sguardo nuovo sul mondo. Uno sguardo che, in tensione con le sfide del proprio tempo, incentiva a sperimentare soluzioni nuove, in coerenza anche con nuove priorità, nuove preferenze, nuovi significati e nuove modalità di vivere e generare benessere.

La novità di questo secolo è il passaggio dalla crescita della quantità alla qualità della crescita. E’ di questa grande transizione che le nuove generazioni, con incertezze e difficoltà, stanno cercando di farsi interpreti (passando dal benessere basato su quantità di produzione, consumo, anni di vita, a qualità della vita, del lavoro, delle relazioni, del rapporto con l’ambiente). Per farsi attori di questo mutamento i giovani non possono essere considerati solo portatori di competenze tecniche avanzate, devono essere culturalmente abilitati a rinnovare valore e senso nei processi che arricchiscono il loro essere e fare nel mondo.

Le fasi principali del rinnovo generazionale sono quella in cui le nuove generazioni entrano, per nascita, nella popolazione, e quella in cui rigenerano, quantitativamente e qualitativamente, la forza lavoro. Perché funzionino i meccanismi di rinnovo è necessario che tale ruolo venga riconosciuto alle nuove generazioni e possano essere messe nelle condizioni di poterlo svolgere al meglio, con gli strumenti più avanzati del tempo in cui vivono. In Italia è carente sia, dal punto di vista culturale, tale riconoscimento, sia, dal punto di vista delle politiche, l’investimento in adeguati strumenti.

Se le politiche pubbliche devono rafforzare la qualità della formazione e la qualità dei servizi di orientamento e accompagnamento nel mercato del lavoro, è sempre più riconosciuta l’esigenza che le organizzazioni debbano fare un salto di qualità nell’essere attrattive verso i giovani e nella capacità di trattenere e fare crescere i nuovi talenti (intesi nell’accezione più ampia) al proprio interno.

Esperti di risorse umane e selezionatori, in particolare, nei colloqui di lavoro incontrano giovani che pur avendo le competenze richieste esprimono priorità e aspettative con le quali faticano a mettersi in sintonia. Come mostrano i dati di molte ricerche, stipendio e carriera, così come tipo di contratto e possibilità di smart working, sono aspetti che contano, ma non fanno di per sé la differenza. Rientrano piuttosto in un concetto di benessere più ampio che include il riconoscersi nei valori dell’azienda, la qualità delle relazioni, l’impatto sociale, l’armonizzazione tra impegno lavorativo e vita privata. Ma soprattutto c’è il desiderio di essere riconosciuti nella propria specificità. Millennials e Generazione Zeta sentono come riduttivo che venga chiesto di portare solo le competenze di cui l’azienda ha bisogno, mentre vorrebbero soprattutto poter portare quello che sono. La chiamata che li ingaggia non è quella di sostituire un lavoratore andato in pensione o coprire una mansione scoperta, ma generare valore con la novità che rappresentano.

Il fenomeno della “Great resignation” è espressione di questo mutamento qualitativo di fondo. Se i giovani non sentono rafforzarsi le condizioni di benessere più ampio, buon stipendio e stabilità di contratto non bastano più a trattenerli. Se non sentono di crescere in termini sia di proprio sviluppo umano sia di contributo nello sviluppo dell’azienda con il proprio valore distintivo, perdono motivazione e lasciano.

Per chiarire come questi mutamenti agiscano nel rapporto tra domanda e offerta di lavoro può essere utile una metafora calcistica. Proviamo a pensare l’offerta come giovani giocatori seduti in panchina. Lasciarli per lungo tempo fermi in tale condizione denota una bassa capacità di valorizzazione. Muoverli dalla panchina per fargli fare i raccattapalle li toglie dalla condizione di passività ma non li aiuta a sentirsi riconosciuti come soggetti di valore. Farli entrare in campo senza averli ben preparati e motivati ha come esito quello di esporli ad esperienze negative che fanno perdere fiducia nelle proprie capacità e nella possibilità di generare valore con la propria azione. Metterli in squadra nei tempi e nei modi adeguati, con giusto atteggiamento e le migliori condizioni tecniche, ma in un ruolo predefinito in funzione delle esigenze in quel momento della squadra, consente di essere riconosciuti come nuovo di valore, ma non necessariamente di generare nuovo valore con le proprie specificità. Se, una volta inseriti nel ruolo più funzionale in quel momento, c’è poi anche la disponibilità a capire come cambiare posizione e ruolo in campo – di conseguenza anche il modulo strategico – in modo che possano dare il meglio con la squadra e la squadra possa dare il meglio con loro, allora si ottiene riconoscimento di valore che genera valore riconoscibile. Se l’organizzazione non è aperta alla possibilità di cambiare con te, in funzione di quanto dimostri di saper dare, significa che il tuo valore distintivo non è generativo in quel contesto.

Il proprio specifico fattore umano deve poter aver spazio strategico per generare valore distintivo: la componente non-robot della forza lavoro sarà sempre più caratterizzata da tale aspirazione qualificante. La competitività delle aziende future, del resto, più che dal grado in sé di automazione dipenderà da quanto esse sapranno valorizzare tale fattore.

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