Il Paese che dimentica i giovani

Un Paese prospera se mette i membri delle nuove generazioni nella condizione di essere ben preparati, efficacemente inseriti nel mondo del lavoro, adeguatamente valorizzati nel sistema produttivo

C’è una crisi che precede la grande recessione, che la congiuntura negativa ha inasprito e che prosegue anche dopo, è quella che investe le nuove generazioni italiane. Una crisi che più che a fattori contingenti esterni va attribuita a persistenti limiti strutturali (e culturali) interni.


Un Paese prospera se mette i membri delle nuove generazioni nella condizione di essere ben preparati, efficacemente inseriti nel mondo del lavoro, adeguatamente valorizzati nel sistema produttivo. In particolare, la buona occupazione, quella che produce benessere e sviluppo, dovrebbe svolgere al meglio tre funzioni: essere un’attività che consente alle persone di realizzarsi nel fare; migliorare prodotti e servizi presenti nel mercato; fornire una remunerazione corrispondente all’impegno dedicato e alla qualità dei risultati.
Il riscontro del fatto che tutto questo si stia realizzando o meno lo si ha soprattutto sui nuovi entranti nel mondo del lavoro. Se stiamo andando nella giusta direzione, è il ruolo delle nuove generazioni che risulta potenziato con l’espansione di nuove opportunità, in caso contrario sono principalmente loro a veder scadere prerogative e condizioni. Purtroppo l’Italia è una delle economie avanzate che più rientrano in questo secondo scenario.
I dati ci dicono che più comune risulta – rispetto ai coetanei europei con pari titolo di studio – la condizione di sottoccupazione, sottoinquadramento e bassa remunerazione. Più alto è inoltre il rischio di trovarsi intrappolati nella condizione di Neet, ovvero di uscire dal percorso formativo senza che a ciò corrisponda un effettivo ingresso nel mondo del lavoro.
L’aspetto che, più di ogni altro, caratterizza maggiormente l’Italia in questo primo tratto di secolo è proprio lo spreco delle nuove generazioni, che ha raggiunto livelli non solo preoccupanti ma imbarazzanti nello scenario europeo. Non solo tale valore risulta il peggiore di tutti nelle età giovanili (15-24 anni), ma rimane tra i più elevati anche nella fascia giovane-adulta. Impressionanti sono, a questo proposito, i dati presentati alla terza edizione del convegno Neeting, organizzato a Milano da Fondazione Cariplo e Istituto Toniolo. Se si prende la generazione di chi aveva 20-24 anni ad inizio crisi, ovvero nel 2007, e la si segue a cinque anni di distanza (nel 2012, attorno al momento acuto della recessione) e poi a dieci anni (nel 2017, a ripresa iniziata), si nota come il rischio di intrappolamento nella condizione di Neet sia cresciuto, salendo dal 21,3%, al 28,8%, fino al 29,1%. Ovvero, tale generazione è invecchiata peggiorando la propria condizione e arrivando a superare i 30 anni con un carico di fragilità record in Europa. Se nel 2007, all’età di 20-24 anni, il divario con la media europea era di 6,1 punti percentuali, risulta oggi, all’età di 30-34 anni, salito a oltre 10 punti percentuali. Detto in altro modo, gli altri Stati dopo la fase acuta della crisi sono riusciti a ridurre la vulnerabilità delle generazioni investite, mentre in Italia queste ultime si sono trovate esposte a fragilità persistenti (con effetti corrosivi personali e sociali).
Dopo aver creato un debito pubblico tra i più elevati al mondo, dopo aver creato squilibri demografici tra i peggiori al mondo (tanti anziani e sempre meno giovani), ora ci troviamo ad essere quelli che più trasformano le nuove generazioni da potenziali risorse attive a costo sociale.
Non è l’esito di un complotto ma di scelte sbagliate, anch’esse persistenti. Ci risulta, del resto, più facile cambiare governo che mettere assieme le basi di un diverso destino da dare al paese.

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