Per abolire le diseguaglianze servono asili e formazione permanente

Se vogliamo che l’Italia colga l’opportunità di una rinascita, che abbia come motore la capacità di essere e fare dei cittadini, il riconoscimento e la realizzazione di questi diritti sono il miglior impegno che possiamo oggi assumere.

La sfida maggiore del nostro tempo è saper gestire la complessità. Saper, inoltre, individuare e cogliere opportunità nella complessità. Ma anche crearne di nuove. E, infine, dalle opportunità saper generare valore, alimentando un circuito virtuoso in cui la capacità di essere e fare delle persone cresce assieme ai livelli di benessere (nelle sue varie dimensioni) del contesto sociale ed economico in cui operano.

Se, viceversa, la nostra capacità di leggere la realtà e di agire positivamente al suo interno, cresce meno rispetto al grado di complessità che caratterizza le trasformazioni del nostro tempo, si indebolisce non solo la produzione di ricchezza, ma si deteriora anche il senso di appartenenza sociale, scade la fiducia verso le istituzioni, si perde la visione positiva del futuro. Le analisi del “Rapporto giovani 2020” dell’Istituto Toniolo mostrano che chi ha titolo di studio basso e proviene da contesti sociali più poveri, si trova con meno possibilità di accesso, ma anche con minori strumenti per riconoscere il valore, rispetto a ciò che è nuovo e si associa a nuove opportunità. Riescono, ad esempio, a beneficiare di meno dei consumi culturali resi disponibili dai nuovi media; riescono di meno a immaginarsi positivamente inclusi nelle prospettive offerte dalle “professioni del futuro”; riescono di meno a sentirsi parte attiva del miglioramento del bene comune attraverso l’impegno sociale. Queste difficoltà si sono ulteriormente accentuate con la pandemia, per l’inasprimento delle diseguaglianze sociali e per l’aumento dell’incertezza nei confronti del futuro.

Nella conclusione dei Promessi sposi, l’idea di un mondo migliore – in cui il destino non fosse solo quello di rassegnarsi ad una vita precaria, alle aggressioni epidemiche e alle ingiustizie sociali – passa per Renzo attraverso il volere che i figli “imparassero tutti a leggere e scrivere”. Dobbiamo oggi aver ben chiaro qual è l’equivalente al grande salto di qualità che il leggere e scrivere consentì di fare nel passaggio dal mondo di allora a quello in cui viviamo; in modo da rendere le nuove generazioni parte attiva dei processi più avanzati di miglioramento in coerenza con le sfide del nostro tempo.

Nei primi decenni del secondo dopoguerra questa visione c’era. La necessità di consolidare il percorso di crescita attraverso un potenziamento dell’accesso alla formazione, secondo le condizioni e le necessità di quella fase storica, portò l’Italia del miracolo economico ad aumentare l’obbligo scolastico, a rafforzare il diritto allo studio, a liberalizzare l’accesso all’università. Venne, inoltre, rafforzato anche il tratto iniziale con l’istituzione, nel 1968, della scuola materna statale. Qualcosa di questa spinta si deve essere perso nei decenni successivi. Dalla fine degli anni Settanta in poi, rispetto alle altre economie avanzate, l’Italia si rivela molto meno in grado di valorizzare il capitale umano delle nuove generazioni e a espandere, facendo leva su di esso, produttività e competitività del sistema paese.

E’ particolarmente indicativo, in questo senso, il dialogo che si trova nel film “il tassinaro” del 1983, tra Alberto Sordi, che interpreta un tassista romano, e Giulio Andreotti, che interpreta se stesso. Nella corsa verso Montecitorio Sordi racconta che il figlio si sta laureando in ingegneria (ovvero sta andando ad incrementare quel capitale umano che si è voluto far crescere con le riforme che avrebbero dovuto potenziare lo sviluppo italiano). Simbolicamente il tassista si mette sul sedile posteriore e chiede a chi guida la nazione: E’ un paese per giovani ben formati quello che si sta costruendo? La politica italiana sta mettendo nuove basi per allineare le proprie possibilità di crescita alle sfide dei tempi nuovi e all’altezza del potenziale che le nuove generazioni possono esprimere con il proprio contributo qualificato? O dopo tanti sacrifici, il meglio che potrà fare il figlio di un tassista è ereditare la licenza del padre? Nella sua replica Andreotti non parla né di politiche di sviluppo che possono espandere la domanda di lavoro e né di strumenti per rendere più efficiente l’incontro tra domanda e offerta. Il suo messaggio è tutto concentrato sull’esigenza di limitare, con il numero chiuso, l’accesso alle facoltà e sull’incoraggiare i laureati ad adattarsi, indipendentemente dal percorso di studi, a ciò che il mercato offre o a cercare opportunità all’estero. E’ di fatto l’anticipazione di quella che sarà la condizione vissuta dalle nuove generazioni italiane, le quali vedranno indebolire progressivamente la propria capacità di mettere le proprie energie e intelligenze al servizio dei più avanzati processi di sviluppo del paese. E per converso si troveranno ad aumentare la dipendenza passiva dalla famiglia di origine, fino ai livelli record attuali, come certificato anche dai più recenti dati Eurostat.

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