Quel mito infranto del nostro benessere

Il 2020 lo ricorderemo per l’anno perduto sull’indicatore dell’aspettativa di vita.

Siamo ancora nel pieno del momento più drammatico vissuto dal nostro paese nel secondo dopoguerra. La lunga colonna di mezzi militari carichi di feretri che attraversa le vie deserte di Bergamo, immortalata il 18 marzo scorso, è destinata a rimanere una delle immagini simbolo di questo secolo. Possiamo leggerla oggi come il segnale di una rivoluzione silenziosa con la quale la morte si è ripresa la scena.

Come ha messo bene in luce nei suoi saggi lo storico Philippe Ariès, dal mondo occidentale la morte era stata di fatto rimossa. Nelle società moderne avanzate ci siamo autocollocati in un mondo in cui il lutto può irrompere – anche in modo inatteso in corrispondenza di specifici avvenimenti subiti a livello personale o collettivo – ma con possibilità di turbare solo per un breve tempo la quotidianità, a cui segue un rapido ritorno ad una normalità in cui la morte è assente dai pensieri e dal discorso pubblico.

Con il Covid-19, invece, la comunicazione ufficiale del numero dei decessi si è imposta come l’appuntamento principale delle news quotidiane. Come fosse un bollettino di guerra. Con la differenza che con la guerra l’uomo è causa del suo mal, mentre l’aggressione di un virus sovrasta la pretesa di controllo dei rischi a cui si espone. E’ molto più simile alla conta quotidiana dei decessi nelle città europee del medioevo, avviata in modo continuo proprio per individuare, attraverso una crescita anomala, l’arrivo di una possibile epidemia. Ciò consentiva di mettere per tempo in atto le uniche azioni disponibili a difesa dal nemico invisibile, come magistralmente raccontato dallo storico economico Carlo Maria Cipolla, ovvero quelle mirate al contenimento della diffusione del morbo. Il pericolo più temuto era la peste che in pochi mesi poteva arrivare a falcidiare oltre un terzo della popolazione.

Gli stessi dati sui decessi raccolti nei registri cittadini sono diventati poi la base, ad opera di John Graunt nella Londra della seconda metà del Seicento, del primo prototipo di tavola di mortalità. Strumento che mette al centro il concetto di rischio e porta alla definizione di uno degli indicatori più importanti per valutare le condizioni di vita e di sopravvivenza di una popolazione: l’aspettativa di vita.

A quell’epoca l’aspettativa (o speranza) di vita di un nuovo nato arrivava malapena a superare i 30 anni. A tenerla così bassa erano gli elevati rischi di morte nelle primissime fasi di vita, che rimanevano in ogni caso alti anche nelle fasi successive. Non c’era nessun momento dell’esistenza in cui ci si potesse sentire serenamente al riparo da tale rischio. Proprio a partire dalla misura del rischio e dalla relazione con i fattori che agiscono su di esso – in termini di comportamenti individuali e di salute pubblica – parte il processo che porta a non dare più per scontata l’elevata mortalità infantile, giovanile e adulta. Si entra così nel mondo contemporaneo, in cui però ci si è trovati a cadere nella tentazione opposta, quella di dare, appunto, per scontato che la mortalità sia definitivamente relegabile ai margini della vita quotidiana. Un po’ come il ritratto di Dorian Gray nascosto in soffitta.

Da questo punto di vista, la pandemia ci ha imposto un brusco risveglio. I valori del 2020, destinati a conquistare una rilevanza distintiva nelle serie storiche secolari dei principali indicatori di benessere e sviluppo, sono oramai acquisiti con una certa solidità. Riguardo ai decessi e alle nascite sappiamo già che i dati osservati si annunciano entrambi come i peggiori di sempre, con conseguente saldo naturale negativo record che sfonderà largamente la soglia di 300 mila. Nel 2015 e nel 2017 il numero di decessi era arrivato a sfiorare 650 mila. Per l’intero 2020 l’Istat stima un eccesso di circa 100 mila decessi in più. Nel 2019 il dato mensile nella parte centrale dell’anno è risultato oscillare attorno a 50 mila. Di fatto, quindi, è come se nel corso del 2020 si fosse aggiunto l’equivalente dei decessi di due mesi in più (uno per ogni ondata) rispetto ad un anno ordinario.

L’anno iniziale del terzo decennio di questo secolo rischia di essere considerato da molti punti di vista (delle attività formative, di lavoro, di progetti da realizzare) come un “anno perduto”. E’ comunque certo, in ogni caso, che il 2020 lo ricorderemo per l’anno perduto sull’indicatore dell’aspettativa di vita. Di almeno tale entità è, infatti, stimabile il contraccolpo subito, ma con valori ancora più negativi sul versante maschile e in alcune aree del paese (in particolare la Lombardia). Mai, nel secondo dopoguerra, si era subita una frenata così brusca rispetto all’indicatore che finora più ci aveva contraddistinto in positivo nelle comparazioni internazionali.

Troppe cose abbiamo dato per scontate nel mondo in cui viviamo. Liberarci da tale malintesa illusione è forse l’insegnamento più importante che dovremmo trarre da questa prova.

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