Un figlio nel XXI secolo

La non-scelta in passato significava rimanere in uno stato di esposizione alla fecondità, oggi la non-scelta implica rimanere in condizione infeconda. Si ottiene, così, la rinuncia senza necessità di prendere una vera decisione.

Le società moderne avanzate sono entrate, negli ultimi decenni del XX secolo, in una fase nella quale avere figli è una scelta sempre meno scontata. Il processo decisionale non opera più in sottrazione, ma in aggiunta rispetto ad una condizione di base che è quella di assenza di figli (la contraccezione non subentra per togliere, ma è diventata la condizione comune di base che viene interrotta per consentire una nascita desiderata).

Detto in altre parole, se la non-scelta in passato significava rimanere in uno stato di esposizione alla fecondità, oggi la non-scelta implica rimanere in condizione infeconda. Si ottiene, così, la rinuncia senza necessità di prendere una vera decisione: non serve un rifiuto, basta solo che l’eventualità di avere un figlio sia lasciata in sospeso finché, superata una certa età, non si prende semplicemente atto che è troppo tardi. La scelta in aggiunta non è scontata perché ha bisogno di essere innescata in modo deliberato e consapevole. E’ necessario, più che in passato, che sia favorita e sostenuta da attribuzione esplicita di valore nella comunità di riferimento, oltre che da condizioni oggettive che consentano una integrazione positiva con le varie dimensioni della realizzazione personale, in particolare con quella professionale.

In questo passaggio il numero desiderato è rimasto comunque mediamente vicino a due, ma ad avvicinarsi maggiormente alle proprie preferenze al rialzo sono soprattutto le persone che si trovano con maggiori risorse socioculturali, in contesti con migliori servizi e maggior investimento in politiche familiari. Di conseguenza, se in una società matura avanzata si vuole ridurre le nascite, non è necessario disincentivare le persone ad avere figli, è sufficiente non favorire il crearsi e consolidarsi di condizioni adatte.

Il tasso di fecondità totale italiano è risultato pari a 1,29 nel 2019, uno dei valori più bassi in Europa. L’Età media femminile al primo figlio è di circa 31,5 anni (di fatto, quando le donne italiane hanno il primo figlio, le coetanee francesi stanno già concependo il secondo, https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Fertility_statistics).

Uno dei motivi principali della accentuata denatalità italiana è il fatto che i giovani e le donne, meno che negli altri paesi con cui ci confrontiamo, trovano un contesto favorevole per realizzare in pieno i propri obiettivi di vita e coniugarli con i percorsi formativi e le aspettative professionali (per approfondimenti rinvio al mio saggio: “L’Italia ha bisogno di figli: tre proposte concrete”, Vita e Pensiero, 2018, n.5). Le economie avanzate che meglio sono riuscite, negli ultimi decenni, a riadattare e ristrutturare il sistema sociale favorendo l’autonomia dei giovani, la simmetria di genere e la conciliazione tra lavoro e famiglia, hanno consentito alla fecondità di non ridursi troppo, ai nuclei familiari di difendere il proprio benessere con un doppio stipendio e quindi di contenere anche il rischio di impoverimento delle coppie con figli. Si sono trovate, in definitiva, con un percorso di crescita complessivamente più solido, ma anche socialmente e demograficamente più equilibrato.

Meno figli significa maggior invecchiamento della popolazione con i costi pubblici che ne derivano. Maggior numero di anziani, in assenza di adeguato welfare, implica una crescita della domanda di assistenza (per i più fragili) e quindi, soprattutto, compressione della partecipazione femminile. La minor occupazione fa aumentare il rischio di povertà familiare e produce, quindi, anche maggiori disuguaglianze di partenza per i figli. Allo stesso tempo, al minor numero di donne attive sul mercato corrisponde anche minor gettito fiscale e minor crescita economica, quindi anche meno risorse pubbliche da investire in politiche di conciliazione. Una spirale negativa che trascina quindi verso il basso tutto il Paese.

Se l’Italia vuole spezzare tale spirale e tornare ad essere un paese vitale deve favorire un clima culturale di rinnovata fiducia, promuovendo le scelte desiderate e di valore delle nuove generazioni (in modo che non generino frustrazione e rinuncia, ma successo nell’arricchire progetti di vita che rendono più solido il futuro comune). Serve, inoltre, un riconoscibile cambiamento di paradigma in termini di policy: per il loro legame con l’autonomia dei giovani, l’occupazione femminile e lo sviluppo umano a partire dall’infanzia, le politiche familiari vanno considerate come parte integrante delle politiche di sviluppo di un territorio, non come misure marginali. Tanto più necessario di fronte alla sfida posta dalla pandemia che produce difficoltà oggettive e aumento di incertezza verso il futuro (approfondimenti sull’impatto dell’emergenza sanitaria si possono trovare sul portale: http://famiglia.governo.it/demografia-e-covid-19/).

Tra i segnali incoraggianti c’è la nuova impostazione delle politiche familiari contenuta nel Family act. Conteranno però molto i tempi e le modalità di implementazione. C’è inoltre una possibile spinta a favore delle nuove generazioni da cogliere attraverso i fondi di Next Generation Eu. Servono però progetti solidi e in grado di produrre miglioramenti strutturali. Ma molto dipenderà anche dal clima sociale del paese e da quanto l’attuale incertezza potrà essere superata da una visione comune di futuro sul quale la scelta di avere un figlio possa diventare la scommessa principale.

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