Un paese in debito verso il futuro

Una rappresentazione chiara di come non riusciamo a trovare, oramai da troppi decenni, la strada di uno sviluppo virtuoso può essere fornita dall’andamento straordinariamente speculare di due indicatori apparentemente molto diversi: il debito pubblico e la fecondità.

Un paese in cui si fanno sempre meno figli e li si grava di crescenti costi, a quale futuro va incontro? Purtroppo l’Italia è una delle economie avanzate più vicine a questa situazione. Una rappresentazione chiara di come non riusciamo a trovare, oramai da troppi decenni, la strada di uno sviluppo virtuoso può essere fornita dall’andamento straordinariamente speculare di due indicatori apparentemente molto diversi: il debito pubblico e alla fecondità.

Ancora a metà degli anni Settanta il numero medio di figli per donna si trovava attorno all’equilibrio generazionale, ovvero pari a due, e il debito pubblico sotto il 60% del Pil, livello considerato generalmente accettabile per un’economia sana e un corretto rapporto tra generazioni di oggi e di domani. Alla fine degli anni Ottanta eravamo già diventati uno dei paesi al mondo con peggior combinazione di invecchiamento e indebitamento.

Il punto più problematico viene toccato nella prima metà degli anni Novanta, quando il debito supera nettamente il livello del prodotto interno lordo e le nascite italiane scendono su un livello praticamente dimezzato rispetto ai livelli del baby boom. La fase successiva mostra come riforme e interventi non siano pienamente riusciti nell’obiettivo di invertire la rotta. La fecondità a stento si riavvicina a un figlio e mezzo e il debito alla soglia psicologica del 100% del Pil. Questa parentesi debole e incerta di risanamento e sviluppo viene però, di fatto, annullata dalla crisi. Ci troviamo ora in una condizione di problematicità analoga a quella di metà anni Novanta.

L’evoluzione così straordinariamente speculare di questi due indicatori non è, verosimilmente, né causale né casuale. Sulle dinamiche osservate pesano i fattori che hanno compresso le nostre possibilità di crescita e allargato il gap, sia in ambito produttivo che riproduttivo, tra obiettivi desiderati e realizzazione effettiva.

Durante i “Trenta gloriosi” – il periodo tra la fine del secondo conflitto mondiale e i primi anni Settanta – l’Italia si era rivelata capace, anche meglio di molti altri paesi, di mettere in mutua relazione positiva crescita economica, welfare e demografia. Alla fine di tale periodo non è stata però in grado di rimettersi in discussione, in un mondo che cambiava, ripensando il proprio modello economico e sociale. Questo ha frenato il potenziale contributo alla crescita delle due componenti più investite dai cambiamenti degli anni Settanta e successivi, ovvero i giovani e le donne. Siamo così diventati un paese sempre più ostinato nel preservare diritti e benessere acquisito anziché metterci nelle condizioni di allargare opportunità e produrre nuovo benessere futuro, con la conseguenza di trovarci con sempre più debito oggi e sempre meno crescita domani. In questo contesto anche le famiglie si sono trovate schiacciate in difesa, rivedendo al ribasso il numero di figli anziché allineare al rialzo l’occupazione femminile, come invece fatto nei paesi che hanno investito in politiche di conciliazione. Indebitamento e invecchiamento hanno poi eroso ulteriormente la possibilità di investimento in nuovo welfare e nuovo lavoro, producendo così un circolo vizioso dal quale è diventato sempre più difficile uscire.

L’andamento speculare tra debito pubblico e fecondità non spiega certamente tutto quello che è avvenuto negli ultimi quarant’anni ma descrive con efficacia un percorso che ci ha condotti, per molti versi, lontani dal futuro desiderato. Tantomeno ci dice cosa oggi dobbiamo fare, ma ci mette in guardia sull’importanza di aver ben presente cosa vogliamo diventare domani nelle scelte da fare oggi.

 

Andamento del Debito pubblico su Pil e del Tasso di fecondità totale. Italia 1965-2015

7ac188fe-ed97-4747-aced-6143b5bbcc4c

Rispondi

  • (will not be published)