Carenza educativa. Quella gabbia che passa tra genitori e figli

06/05/2019
Carenza educativa. Quella gabbia che passa tra genitori e figli SOLE 24 ORE

I giovani non impiegati né nello studio né nel lavoro (Neet) in Italia sono 3,3 milioni e hanno un costo annuale di 32 miliardi. Per numero assoluto, è la platea più vasta tra i Paesi della Ue. Il gruppo più fragile, all’interno di questa schiera di ragazzi, è rappresentato da 580mila persone fra 18 e 24 anni che non hanno né un diploma, né una qualifica professionale. Nel linguaggio delle statistiche europee si chiamano early school leavers (Esl): in pratica sono coloro che sono usciti dal circuito scolastico senza avere acquisito una qualifica o un diploma. Sette su dieci hanno una carriera scolastica in linea con quella del padre e della madre. L’indicazione emerge dal Rapporto Giovani 2019 dell’Istituto Giuseppe Toniolo.


Dai dati dell’edizione 2019 del rapporto sui giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo emerge la forte incidenza del capitale culturale della famiglie di origine sulla carriera scolastica dei giovani. In pratica, la scuola in questi anni non è riuscita a compensare il gap di dotazione culturale delle famiglie. Il rischio è quello che la spirale della povertà educativa si perpetui dai padri ai figli, traducendosi per i giovani in un rischio di marginalità lavorativa e sociale. Nel 2012, il 78% dei giovani non diplomati fra 18 e 30 anni aveva un padre (e una madre) con titolo di studio inferiore al diploma o alla qualifica. Questa percentuale è passata al 69,1% nel 2016.
Tra l’altro, mentre un tempo, soprattutto in alcune regioni, l’abbandono degli studi era legato a un ingresso precoce nel lavoro, quindi si lasciava la scuola perché c’era la possibilità di un impiego, questa possibilità si è assottigliata, negli anni, per i giovani senza diploma. Tra il 2012 e il 2016 il livello di inserimento lavorativo dei giovani senza un titolo secondario superiore si è sensibilmente ridotto: nel 2016 risultava occupato il 42,5%, contro il 59,5% del 2012 (si veda il grafico a fianco). La diffusione del fenomeno dei Neet aumenta tra i giovani senza diploma, anche se un titolo di studio più elevato non è un fattore di protezione decisivo.
Per coloro che trovano un lavoro, poi, avere un titolo di studio più basso espone al rischio di forme contrattuali più irregolari e meno retribuite. Il lavoro informale ha un’incidenza maggiore tra i giovani non diplomati: quasi uno su cinque di quelli intervistati nell’ambito del Rapporto dichiara di svolgere un lavoro subordinato regolato solo da un accordo verbale con il datore di lavoro.
Se si considerano poi i redditi da lavoro, emerge che quasi il 60% dei giovani non diplomati, guadagnano meno di mille euro el mese (il 58,9% nel 2012 e il 57% nel 2016).Il 10,2% guadagna da 1.600 a 2mila euro e appena l’1,1% guadagna oltre 2mila euro (dati riferiti al 2016).
Anche la fiducia nelle istituzioni e la propensione verso le attività sociali, come il volontariato, tendono progressivamente a crescere in rapporto con i titoli di studio più alti. Solo il 5,7% dei giovani dichiara di essere impegnato nel volontariato, e questa percentuale si abbassa fino all’1,4% nel gruppo dei giovani che non hanno un titolo di studio secondario superiore.
Il Rapporto 2019 dell’Istituto Toniolo mette in luce il forte rischio di emarginazione anche sociale dei Neet. Nonostante questi giovani non siano impegnati in un’attività lavorativa, e quindi, in teoria, abbiano più tempo per le relazioni personali, più di uno su tre dichiara di non incontrare mai compagni di scuola, amici, parenti o colleghi (il 10,7%, con una percentuale di oltre dieci punti superiore a quella dei non-Neet), o di incontrarli meno di una volta al mese (il 23,8%, contro il 16,5% dei non-Neet).
«Investire nella formazione e nell’inclusione sociale e lavorativa dei giovani in povertà educativa – spiega Alessandro Rosina, docente di demografia e statistica sociale dell’Università cattolica di Milano e coordinatore scientifico del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo – significa aumentare la crescita economica del Paese, ridurre le disuguaglianze ed evitare che questa generazione di ventenni si trasformi in un costo sociale permanente».
L’Italia è riuscita a ridurre il tasso di abbandono scolastico negli ultimi anni, passando dal 25,1% degli under 24 nel 2000 al 14% nel 2017. Comunque, ancora distante dall’obiettivo fissato nell’ambito di Europa 2020 di arrivare sotto il 10 per cento.
«L’Italia ha già meno giovani rispetto ad altri Paesi europei – continua Rosina – e ha un tasso di dispersione scolastica che resta più elevato della media Ue. E mentre questi giovani, prima, avevano la chance di andare presto a lavorare, adesso è sempre più difficile avere un’attività alternativa allo studio. Questi ragazzi – conclude – hanno talenti che rischiano di perdersi e rischiano di restare intrappolati nella condizione di Neet. Per questo è essenziale intervenire per tempo con l’obiettivo di renderli attivi, non tramite aiuti economici per resistere nel presente, ma con investimenti nella formazione e nell’aumento delle loro competenze e capacità».