Come aiutare i giovani italiani a diventare genitori

11/01/2023
Come aiutare i giovani italiani a diventare genitori AIRONI

L’Italia non è un Paese per giovani. Verrebbe proprio da pensarlo guardando i dati sulla natalità che calano inesorabilmente, anno dopo anno. Un trend già critico, che la pandemia ha ulteriormente accelerato. Ma c’è di più. Ci sono le tante difficoltà che una coppia, o una famiglia, deve affrontare ogni giorno. Il risultato? Abbiamo il “fertility gap” più alto d’Europa

Per molti la denatalità è la vera emergenza nel nostro Paese. E in effetti i dati di cui disponiamo oggi non lasciano spazio a dubbi. Una decina di anni fa la popolazione residente in Italia aveva raggiunto il picco storico di 60,8 milioni; da allora, è iniziata una progressiva diminuzione per cui oggi tocchiamo a malapena i 59 milioni. In pratica, come numero di abitanti siamo tornati indietro di 15 anni. Contemporaneamente, però, la popolazione è invecchiata e se l’età media alla fine del 2019 era di 45 anni, oggi siamo arrivati a quasi 47, la più alta d’Europa. Per la cronaca, nel 1951, quando ci fu il primo Censimento della nostra Repubblica, gli abitanti in Italia erano 47,5 milioni e l’età media era di appena 32 anni. La dinamica demografica attuale è senza dubbio stata enfatizzata dalla pandemia, che ha colpito duramente i più anziani, ma è dovuta soprattutto al fatto che nascono sempre meno bambini. Secondo i dati Istat (Istituto nazionale di statistica) nel 2022 i nuovi nati sono stati all’incirca 385mila, ancora meno dei 399mila del 2021; per il secondo anno consecutivo i neonati non raggiungono il traguardo simbolico dei 400mila. Il 30% in meno rispetto a una quindicina di anni fa. Siamo dunque arrivati al nostro minimo storico.

Mamme sempre più tardi

«In Italia le donne decidono di diventare madri sempre più avanti (l’età media del primo parto è di 32,4 anni) e hanno 1,24 figli; è dal 1975 che si è sotto la soglia di due figli per donna, ma basterebbe alzare la media a 1,8 figli (come accade oggi in Francia e in Svezia) per garantire un adeguato equilibrio tra le generazioni» spiega Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia all’Università Cattolica di Milano. Eppure, secondo un’indagine Istat condotta su un ampio campione di uomini e donne tra i 18 e i 49 anni, il modello ideale di famiglia è proprio quello con due bambini.

«Il punto è che spesso – pur tra incertezze e timori – le coppie che lo desiderano non rinunciano ad avere un figlio, ma quando poi provano sulla propria pelle come le difficoltà organizzative incidano su una serena gestione della famiglia, il più delle volte scelgono di non metterne al mondo altri» commenta ancora il professor Rosina. C’è quindi un importante divario tra il numero di figli desiderati e quello dei figli che vengono poi realmente messi al mondo. Fertility gap viene chiamato e da noi ben è più alto che in altri Paesi. Ma che cosa ci ha portato così lontano dagli anni del Dopoguerra, quando in una Italia alle prese con la ricostruzione si sfiorava il milione di nuovi nati ogni anno?

Nei mesi di dicembre 2020 e gennaio 2021, le nascite, ascrivibili ai concepimenti avvenuti nei mesi di marzo e aprile, cioè quando tutta Italia era in lockdown, c’è stato un vero e proprio crollo delle nascite. Nel caso qualcuno avesse ancora dei dubbi sugli effetti nefasti che ha avuto da pandemia sulla natalità…

Il tasso di natalità nel nostro Paese è di 6,8 neonati ogni 1000 donne in età fertile. Con alcune differenze: si va dai 5,2 in Sardegna ai 9,7 nella Provincia Autonoma di Bolzano. Le regioni del Centro Italia sono al di sotto della media nazionale, mentre i tassi più elevati sono quelli di Campania, Calabria e Sicilia.

Tanta incertezza e pochi aiuti

Sicuramente, le grandi emergenze del nostro tempo, e cioè i drammatici cambiamenti climatici, la pandemia (che oggi preoccupa molto meno ma dalla quale non siamo ancora del tutto usciti), l’escalation dei conflitti armati e la crisi economica hanno impresso un’ulteriore accelerazione al fenomeno della denatalità. D’altronde, si sa che nei momenti di grande incertezza tutti tendiamo a muoverci con prudenza e a rimandare a tempi migliori (sperando che arrivino…) le decisioni importanti della vita. Per un giovane o una giovane coppia, potrebbe significare aspettare ad acquistare casa, a sposarsi o, appunto, mettere in cantiere un figlio. Ci sono, però, altri fattori che giocano contro una crescita demografica. Vediamoli.

I tempi lunghi dell’autonomia

È una banalità, ma diciamolo: un figlio bisogna poterselo permettere. «E invece oggi, per i giovani, è diventato difficile fare progetti per il futuro, perché anche dopo avere completato gli studi ci sono troppi elementi che ne frenano l’autonomia e quindi l’uscita dalla casa dei genitori per costruirsi una propria vita» spiega Alessandro Rosina. «Basti pensare ai costi proibitivi di una casa, o anche semplicemente di un alloggio in affitto, soprattutto nelle grandi città» prosegue il professore. E chi non ha una famiglia alle spalle che può aiutarlo e ha uno stipendio modesto, come capita spessissimo quando si è agli inizi, come fa? «Se, però, i tempi si allungano a dismisura è naturale che si riduca quello in cui programmare l’arrivo di un figlio; e questo è un problema soprattutto per le donne, che magari iniziano a cercare una gravidanza quando le capacità riproduttive sono già in calo…» aggiunge il dottor Corrado Bonifazi, demografo e ricercatore associato al Cnr.

Il senso di precarietà

Oltre che una casa in cui abitare, è essenziale poter contare su uno stipendio certo e adeguato. E invece oggi molti vivono con la paura perenne di perdere il posto di lavoro. Troppi contratti brevi, rinnovi non sempre facili o automatici, e la consapevolezza che non è così facile trovare subito un altro impiego. Un solo dato, che oltretutto dà la misura di quanto l’occupazione femminile sia ancora più precaria di quella maschile: nell’anno della pandemia – il 2020 – oltre 96mila donne si sono ritrovate senza più un lavoro, vuoi perché si sono dimesse vuoi perché sono state licenziate. A questo senso di precarietà e timore per il futuro si risponde spesso che gli italiani hanno avuto figli anche in situazioni storiche ed economiche ben più drammatiche. Vero, ma i tempi sono diversi e non solo perché oggi un figlio “costa” molto di più.

La penuria di servizi per l’infanzia

Il numero dei posti negli asili nido comunali è ancora molto basso (siamo fermi al 25%) e di conseguenza – come chi è già genitore sa bene – non è affatto detto che una coppia riesca a iscrivere il proprio figlio. È un terno al lotto, con una graduatoria che si basa su vari parametri e comunque è sempre un servizio a pagamento, in base all’Isee. E infatti molti ricorrono al welfare famigliare, cioè i nonni, che diventano un preziosissimo supporto per le mamme lavoratrici con figli fino ai 10 anni; secondo l’Istat, quando entrambi i genitori lavorano, i nonni si occupano dei più piccoli nel 60,4% dei casi, e nel 47% dei casi quando il bambino ha oltre 5 anni. Se i nonni, per un qualsiasi motivo, non sono disponibili, non restano che le opzioni di un asilo privato o di una baby sitter fissa. Con costi significativamente più elevati.

La difficoltà di conciliare maternità e lavoro

Innanzitutto, anche se oggi i papà sono molto più presenti e coinvolti nei lavori domestici e nella cura dei figli, non si può negare che gran parte delle responsabilità genitoriali gravi ancora soprattutto sulle spalle delle donne. E questo già basta a rendere difficile una conciliazione tra il ruolo di mamma e quello di lavoratrice. Se, poi, si aggiunge il fatto che i nonni non ci sono o non sono disponibili, che i servizi costano troppo e che – come spesso succede – le aziende non vengono incontro alle esigenze delle madri, nemmeno con orari flessibili, il rischio che una donna lasci il suo posto lavoro è alto. «O magari no, facendo i salti mortali tra un impegno e l’altro, ma certamente viste le difficoltà di organizzazione, ci penserà mille volte prima di avere un altro figlio» commenta il professor Rosina. In Italia i tassi di occupazione maschile sono da sempre ben più alti di quelli femminile. Una divergenza che negli anni della pandemia si è accentuata ancora di più (oltre il 77% contro il 49%). A pagare la crisi economica, infatti, sono state soprattutto le donne che – oltre a essere meno “occupate” – hanno spesso contratti più fragili, cioè a tempo determinato o part time. Abbiamo già accennato al fatto che nel 2020, in pieno Covid, decine di migliaia di madri (quasi tutte con figli sotto i 5 anni) hanno dato le dimissioni o comunque hanno raggiunto un accordo con il datore di lavoro. Un numero elevatissimo, di gran lunga superiore a quello che degli uomini che hanno lasciato il lavoro nello stesso periodo. La motivazione più indicata dalle donne? Proprio l’impossibilità di conciliare la cura dei figli con l’organizzazione del lavoro.

Box – In continuo aumento le donne senza figli

Mentre diminuisce la quota delle madri che hanno due o più figli, è in costante aumento quella delle donne che non ne hanno. Lo dicono sempre i dati Istat. Intorno al 1950 soltanto l’11% delle donne non aveva figli e appena una su cinque ne aveva uno solo. Nel decennio successivo salgono a 13,5%, così come le madri di figli unici diventano una su quattro. Un trend che si accentua intorno agli anni ‘70, quando le donne senza figli raggiungono il 20,9%, cioè una su cinque, mentre diminuiscono in modo significativo quelle con due o più figli. Infine, tra le donne degli anni ‘80, che si stanno avviando al termine della loro vita riproduttiva, addirittura il 25%, cioè una su quattro, non è diventata mamma, e tra le madri soltanto una su due ha avuto due o più figli. «È giusto però dire che rispetto a 50 anni fa la nostra società è molto diversa, così come è cambiato il ruolo delle donne» aggiunge il dottor Corrado Bonifazi. «Se una volta il percorso (quasi) obbligato era quello di sposarsi e diventare madri, oggi le donne si sentono più libere di fare altre scelte e di realizzarsi in altra maniera, per esempio, nel lavoro».

Nel mondo siamo 8 miliardi

A metà novembre la popolazione mondiale ha raggiunto gli 8 miliardi. Un numero esorbitante, se pensiamo che solo 70 anni fa – nel 1950 – eravamo 2,5 miliardi, e che sono bastati 12 anni per passare dai 7 miliardi di persone agli 8 di oggi. All’origine di questa crescita senza precedenti c’è il progressivo aumento dell’aspettativa di vita, ottenuto grazie ai progressi nel campo della sanità pubblica e della medicina, dell’igiene e della nutrizione. Ma anche a un exploit di nascite in Asia e in Africa, che hanno compensato il calo demografico europeo e nordamericano. Più della metà della crescita prevista per i prossimi anni sarà dovuta all’aumento della popolazione in soli otto Paesi: India, Filippine, Congo, Egitto, Etiopia, Nigeria, Pakistan e Tanzania. L’Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite) ha comunque stimato che ci vorranno altri 15 anni per tagliare il traguardo dei 9 miliardi; segno che il tasso di crescita sta rallentando. Per quanto il traguardo degli 8 miliardi sia stato presentato con toni ottimistici, il fatto che la parte del mondo più ricca stia invecchiando e quella più povera stia esplodendo non può non far riflettere.

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Perché va cambiata rotta

Sempre meno bambini e una popolazione in prevalenza anziana: è questo lo scenario che si prospetta nel giro di pochi decenni e che preoccupa, perché c’è in gioco la tenuta e il futuro del “sistema Paese”. Per porre un freno al calo demografico, più che “convincere” le donne a fare figli, bisognerebbe rimuovere gli ostacoli che impediscono a chi li desidera di metterli al mondo

Guardando i numeri di oggi e se si andrà avanti di questo passo, possiamo già fare una previsione di come sarà il nostro Paese in un prossimo futuro. In meno di 30 anni perderemo 5 milioni di abitanti, di cui 2 milioni di giovani, mentre gli ultranovantenni saliranno a un milione e 700mila, oltre il doppio degli attuali 800mila, e gli ultracentenari passeranno dai 20mila di oggi agli 80mila. E i nuovi nati non arriveranno nemmeno a 300mila. In pratica… soltanto il 52% degli abitanti avrà tra i 20 e i 66 anni (sarà cioè in età lavorativa) e dovrà provvedere all’accudimento e alla formazione dei più giovani (il 16%), ma soprattutto al mantenimento dei pensionati (che arriveranno al 32% della popolazione) e al loro bisogno di cure e assistenza. Peggio ancora se si guarda più avanti: «Con questo andamento demografico l’Italia passerà dai 59 milioni di abitanti di oggi ai 48 milioni nel 2070» ha recentemente dichiarato il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, che non ha nascosto la sua profonda preoccupazione per il futuro. «Invertire la rotta non è facile perché, al punto in cui siamo, è già scattata quella che noi chiamiamo la “trappola demografica”» commenta il professor Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia all’Università Cattolica di Milano. Cosa significa? «Semplice: se ieri ci sono state meno nascite, oggi ci sono meno donne in età fertile e quindi meno madri, il che vorrà dire che domani ci saranno ancora meno nascite… e via di questo passo» risponde l’esperto. Non è un caso che il governo Meloni da poco insediatosi abbia istituito un ministero della Natalità, associato alla Famiglia e alle Pari Opportunità, affidato alla ministra Eugenia Roccella, già sottosegretario al ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali nel governo Berlusconi (anni 2008-2009). A dir la verità, la parola “natalità” ha suscitato qualche perplessità in chi ritiene che uno Stato non dovrebbe entrare in una sfera così intima e anche qualche battuta ironica riferita alla politica demografica del ventennio fascista, ma va ammesso che il tema della natalità è serio, perché riguarda tutti noi e il futuro del Paese. Chi pensa che sia una semplice faccenda di numeri sbaglia di grosso. Ne è convinto anche il dottor Luigi Orfeo, presidente della Società italiana di neonatologia (Sin), che ha definito la denatalità «una vera e propria emergenza sociale, che come tale deve essere affrontata, e non una questione solo demografica, ma anche sociale, economica e culturale».

Siamo arrivati al punto che oggi le bisnonne sono più numerose delle bisnipoti e che le donne di 85 anni sono più delle bambine di un anno.

Le ripercussioni negative

Tutto il nostro “sistema Paese”, dal meccanismo pensionistico al finanziamento dell’istruzione e della sanità, si basa sul fatto che una netta maggioranza della popolazione sia in età lavorativa. Quindi, una nazione che invecchia, con sempre meno giovani e sempre più anziani, a lungo andare dovrà per forza fare i conti con le sue conseguenze in termini di stabilità economica e di sostenibilità del welfare. «Si è già calcolato che il Pil (Prodotto interno lordo), che oggi si aggira sui 1.800 miliardi, nel 2070 potrebbe scendere di oltre 500 miliardi, diventeremo quindi un Paese più povero» ha dichiarato Gian Carlo Blangiardo.

Rischiamo quindi di diventare un Paese ben più povero, in cui si alzerà inevitabilmente il debito pubblico. «Se davvero si arriverà alla percentuale di poco più del 50% di italiani in età lavorativa si determinerà una situazione insostenibile: avremo meno persone che faranno crescere l’economia, meno risorse in generale e meno lavoratori che finanzieranno l’intero sistema di welfare; non solo, finirà con lo scarseggiare anche il personale addetto ai vari servizi» mette in guardia il professor Alessandro Rosina. «Molto banalmente, anche quello che oggi molti lamentano e cioè la mancanza di medici di base è già un primo effetto di questa crisi demografica» prosegue l’esperto.

«Se nasceranno sempre meno bambini» aggiunge il dottor Corrado Bonifazi, demografo e Ricercatore associato al Cnr «si arriverà al paradosso che diminuirà la qualità dell’assistenza medica e sanitaria proprio nel momento in cui ce ne sarà più bisogno, visto l’alto numero di anziani e il fatto che oggi l’età media della vita è ben più lunga che in passato».

Ci sono, poi, anche aspetti più psicologici: a livello personale i tanti figli unici di oggi si ritroveranno domani più soli ad assistere i genitori anziani, non potendo contare su una rete famigliare che non esiste praticamente più: in generale, una società con tanti anziani tenderà a essere conservatrice e sarà meno propensa ad accogliere le novità (anche tecnologiche) e anche a battersi per un futuro migliore.

Ci vogliono misure ad hoc

In questi ultimi tempi si sente spesso parlare di come si potrebbe intervenire per frenare o quanto meno ridurre il declino demografico. Indipendentemente dalle posizioni politiche, sembrerebbe chiaro a tutti che occorrono interventi strutturali adeguati, che sostengano le famiglie e i giovani. A dir la verità, secondo molti esperti di demografia, il dibattito politico è oggi monopolizzato dal tema pensioni (dal “come far uscire prima” le persone dal mondo del lavoro), come se non ci si rendesse che siamo già in una situazione drammatica e non possiamo permetterci di perdere altro tempo. «Tra l’altro, abbiamo la possibilità di guardare a quei Paesi europei che hanno già affrontato il tema della denatalità con misure che stanno dando i loro frutti» afferma il professor Alessandro Rosina. Non può sfuggire, però il fatto che per concretizzare molte delle misure che seguono occorrono tante risorse economiche…

L’assegno unico universale Un punto di riferimento positivo viene dalla Germania, che già da anni ha rafforzato le politiche di sostegno alle famiglie. «Lo Stato riconosce ai nuclei famigliari oltre 200 euro per ogni bambino, fino alla maggiore età o anche oltre se studierà; noi dobbiamo arrivare a quei livelli di copertura, e invece siamo ancora molto lontani» sostiene Rosina. Il nostro assegno unico, infatti, fino alla fine del 2022 ha avuto un valore dai 50 euro ai 175, a seconda dell’Isee famigliare, ed è stato riconosciuto dal settimo mese di gravidanza fino ai 21 anni.

Il congedo parentale Qui, l’esempio virtuoso che bisognerebbe seguire ce lo offre la Spagna, che riconosce ai neopapà un congedo parentale di sei mesi, da usufruire insieme alla neomamma; da noi – ricordiamolo – sono soltanto 10 giorni. «È questa una misura importantissima, sia da un punto di vista pratico perché i neogenitori devono ancora capire come riorganizzare la vita della famiglia, sia psicologico, perché favorisce l’attaccamento anche del padre al neonato» commenta ancora Rosina. E poi la completa condivisione di momenti così unici della vita aiuta una coppia a sentirsi ancora più unita.

I servizi per l’infanzia In Italia non ci sono abbastanza nidi e asili. In Paesi ben più attenti ai bisogni delle famiglie, come la Svezia e la Francia, invece, si arriva al 50% di posti, una copertura che consente di assolvere a tutte le richieste. «Il nostro Paese deve raggiungere questa percentuale, anche per far passare il concetto che il “posto” è un diritto di ogni bambino» prosegue Alessandro Rosina.

Politiche per i giovani Se siamo il Paese europeo con il più alto numero neet (cioè di giovani tra i 15 e i 29 anni che non hanno un impiego ma nemmeno stanno studiando), evidentemente abbiamo un grosso problema. Ci vogliono politiche per i giovani, che li aiutino a sostenere i costi degli affitti e ad agevolare il loro ingresso nel mondo del lavoro.

Aziende a misura di madri Nei Paesi in cui l’occupazione femminile è più alta nascono più bambini. È evidente allora che una “cultura della conciliazione” è possibile. Basterebbe che sia le amministrazioni pubbliche sia le imprese private venissero incontro alle esigenze delle lavoratrici madri. Come? Con un welfare aziendale, e cioè asili nido (magari comuni a più aziende), orari flessibili, possibilità di lavorare all’occorrenza anche da casa, part time reversibili; quest’ultimo è un punto importante, perché una donna deve poter scegliere di lavorare a orario ridotto per i primi anni di vita di suo figlio, ma sapere che potrà rientrare full time quando ne avrà la voglia e la possibilità. Tutti strumenti vantaggiosi anche per i datori di lavoro, come dimostra il fatto che se le donne sono più serene da questo punto di vista lavorano meglio e non sono costrette ad assentarsi per motivi famigliari.

Family Act e Assegno unico universale

A inizio dello scorso anno è stato approvato il Family Act, un pacchetto di interventi di vario genere (dalle agevolazioni per gli affitti dei giovani ai contributi per gli asili nido fino alle detrazioni fiscali per l’acquisto di libri universitari) che mirano a sostenere le famiglie e, in ultima analisi, a contrastare il calo demografico. Misure sicuramente importanti, anche se i tempi – almeno per alcune – appaiono lunghi. Tra queste, vi era anche quella dell’assegno unico, che però è stata presto scorporata, diventando una legge (sulla quale c’è stata un’ampia convergenza politica), che è in vigore dallo scorso marzo. In pratica, riconosce un contributo a tutte le famiglie con figli, a prescindere dal reddito e, per questo, si chiama “universale”. «Se si basasse soltanto sull’Isee sarebbe un sostegno alla povertà; così invece si vuole dare un segnale importante e cioè che un bambino è un valore e un investimento per l’intero Paese» afferma il professor Rosina. Un cambio culturale, insomma.