Generazione Z, ovvero l’età dell’incertezza e della complessità, come da definizione del filosofo Edgar Morin. <E’ così – commenta Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia all’Università Cattolica di Milano –, perché è proprio la caratteristica del nostro presente in cui stanno maturando i giovani>. L’accademico, coordinatore del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, è uno dei relatori del convegno a Bergamo, sabato prossimo, della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice su <Generazione futuro: giovani, lavoro, impresa e bene comune. Costruire l’Italia che verrà>.
Professore, partiamo dai numeri per capire di cosa parliamo.
<La fascia 15-29 anni, quella che corrisponde sostanzialmente alla Generazione Z, nata fra il 1995 e il 2010, ha meno di 9 milioni di abitanti, il 15,2% della popolazione, sorpassata dalla coorte 65-79 anni, che conta un milione di persone in più. Un numero mai così basso, anche in Europa. Sono Neet (quelli che né studiano né lavorano) il 15,2% dei giovani italiani rispetto a una media europea dell’11,2%. Complessivamente, nonostante il trend positivo degli ultimi anni, siamo il secondo Paese dell’Ue per l’incidenza dei Neet dopo la Romania. Un fenomeno che coinvolge anche l’età fra i 30 e i 34 anni. L’inverno demografico, in sostanza, continua a peggiorare. Gli ultimi dati Istat, gennaio-luglio 2025, dicono che le nascite sono state 13 mila in meno rispetto allo stesso periodo del 2024 (-6,3%) e che la stima del numero medio di figli per donna ha raggiunto il minimo storico, con una fecondità pari a 1,13 decisamente sotto la soglia di riproduzione>.
I giovani sono sempre meno, ma sempre più segnati da emergenze e precarietà.
<E’ la generazione della policrisi, nata e cresciuta fra choc multipli: i conflitti nei Balcani, l’attacco alle Torri Gemelle, le guerre in Iraq e Afghanistan, il terrorismo internazionale, la grande crisi finanziaria ed economica del 2008 e 2011, il Covid, l’invasione dell’Ucraina, i massacri in Medio Oriente. Mettiamoci anche l’inflazione, come non avveniva da decenni. Un mondo rovesciato rispetto a quello dei padri e nonni, che hanno vissuto nel tempo dell’ottimismo, della crescita, della nuova Europa che si allargava e che abbatteva le frontiere. Oltre a mezzo secolo di pace, almeno da noi, nell’era della Guerra fredda. Tutto questo non c’è più. A partire dal 1989, con il crollo del Muro, sono cresciuti in assenza delle grandi narrazioni ideologiche e in compenso si sono ritrovati ad essere nativi digitali nell’ambito di una rivoluzione tecnologica, tuttora in corso con l’Intelligenza Artificiale, fra inedite opportunità e analoghi rischi>.
Questo è l’ambiente esterno, ma loro come si stanno muovendo?
<Per alcuni studiosi, sono al centro di una contraddizione fra la loro valorizzazione nella dimensione privata e un inadeguato riconoscimento sociale. In ogni caso sentono come proprio questo secolo: intendono interpretarlo ed esserne protagonisti. Sono coscienti di un’esistenza vulnerabile, dello scarto che li distanzia dalle generazioni del ‘900. La loro formazione è avvenuta in un contesto geopolitico conflittuale, ma proprio per questo reagiscono: vogliono cogliere il futuro come una sfida e non subirlo come una trappola. Agiscono nell’individuale e nel collettivo, intendono essere parte del bene comune, purché siano compresi nelle loro sensibilità e gli siano dati gli strumenti necessari. Una disponibilità’ condizionata>.
Quali sono stati gli choc dall’impatto più critico?
<La pandemia ha sparigliato parecchio, e qui è cambiato il rapporto con la vita e la morte. Quella morte che fino ad allora, nel nostro orizzonte, era quasi scomparsa dal radar. I giovani si sono misurati con la scomparsa dei nonni e dei cari più fragili. Hanno appreso che l’”eterna giovinezza” non era più scontata e spensierata. Un’esperienza diretta e pervasiva, tanto che da allora è aumentata l’assistenza degli psicologi. Si sono posti domande di senso, ponendosi in un approccio non banale con la spiritualità. E hanno scoperto la forza delle relazioni. Un nuovo orientamento che chiedeva di essere elaborato e che, invece, non sempre ha trovato un ascolto pari alla gravità del momento. Il secondo choc per intensità è giunto dalla recessione economica, che ha introdotto ulteriori fattori di instabilità in una società del lavoro già con l’impronta della precarietà e delle aspettative decrescenti>.
Però di fronte alle insicurezze, i giovani si sono fatti portatori di istanze di benessere personale, sociale ed ambientale.
<Sì, in qualche modo sono tornati sulla scena, con un rinnovato protagonismo un po’ ovunque. Non a caso sono stati attori delle Primavere arabe e, più recentemente, delle proteste in Paesi come Nepal e Madagascar. Quel che s’è rafforzato, specie dopo il Covid, è l’importanza del benessere piscologico, emotivo e relazionale: un individualismo che si supera nello stare insieme. I giovani vogliono sentirsi bene dal punto di vista dei rapporti umani, del clima positivo che vogliono respirare là dove vivono: a scuola, nel lavoro, all’oratorio, nelle compagnie. Intendono ben imparare, ben lavorare, ben partecipare. Rispetto alle generazioni precedenti, accentuano l’idea di un mondo migliore e partecipato. Tuttavia sono consapevoli che questo loro mettersi in gioco va supportato dal mondo degli adulti, altrimenti il rischio è la percezione di impotenza. Lo vediamo anche nella solitudine del rifugio che i giovani inseguono attraverso i social network e in una certa lontananza dalla politica, il frutto anche di deficit degli adulti: cosa propongono di meglio, di più costruttivo? Guardare alla Generazione Z con gli occhi novecenteschi è anacronistico. Per le generazioni che hanno costruito la Repubblica, la democrazia e il voto erano valori in sé fortemente riconosciuti. Oggi non hanno più questa forza acquisita: i giovani vanno educati alla democrazia, alla quale chiedono efficacia, qualità e, soprattutto, la possibilità effettiva di parteciparvi>.
Lei sta dicendo che per la Generazione Z non vale tanto il benessere, ma il ben-essere con il trattino?
<Assolutamente sì, è il dato esistenziale principe. La crescita quantitativa, legata ala macroeconomia, ha caratterizzato il secolo scorso, mentre lo sviluppo sostenibile e inclusivo rappresenta la cifra del secolo attuale, assorbito pienamente dalla Generazione Z: qualità del vivere, del rapporto con gli altri, del fattore umano in relazione alle nuove tecnologie, all’ambiente, ai servizi, alla qualità del lavoro. Tutto questo conta più del Pil e, per certi aspetti, anche del salario: nel senso che il reddito non vive più di vita propria, ma in parallelo al ben-essere. Le società moderne avanzate proiettano le nuove generazioni in un contesto con grado di complessità e rapidità di cambiamento notevolmente maggiori rispetto al passato. Nel confronto con chi li ha preceduti, i giovani attuali si trovano con molte più opzioni ma anche con molta più incertezza sulle implicazioni delle proprie scelte. Senza adeguati strumenti per leggere la realtà, farne esperienza positiva, orientarsi e definire coordinate di riferimento, il rischio di perdersi è alto: quello di non incontrare il futuro desiderato, ma di scivolare in un presente con orizzonti sempre più ristretti in cui crescono insicurezza e sfiducia>.
Però siamo nella stagione dei bassi salari, specie per i giovani, e nel mentre sono state smontate le tappe standard della vita: studio, lavoro, famiglia, figli, pensioni.
<Naturalmente lo stipendio conta, eccome, ma il lavoro in sé non è più totalizzante come lo era prima. C’è anche questo nel fenomeno delle “grandi dimissioni” di questi anni. Le transizioni alla vita adulta sono diventate più flessibili e reversibili. Si osserva un effetto domino che scardina lo scontato passaggio dallo studio al lavoro, dall’uscita dalla casa di famiglia al matrimonio e ai figli. Ci si sposa più tardi, il lavoro viene scelto, va e viene, poi si ritorna dai genitori per gli affitti proibitivi. E così si ricomincia dal punto di partenza>.
Tuttavia, come lei ha scritto, c’è un fattore nella transizione alla vita adulta che è rimasto irreversibile.
<E’ l’aver figli, diventata completamente una scelta, acquisendo così un valore e un ruolo fondamentali, in quanto opzione responsabilizzante. Però se non ci sono le condizioni di opportunità economiche, di conciliazione casa-lavoro, la scelta rimane in sospeso, rinviata a tempi migliori. Ricordo che nella prima metà degli anni ’90 siamo diventati il primo Paese al mondo in cui la generazione dei nonni è diventata maggiore di quella dei nipoti. Questo significa che oggi chi ha meno di 35 anni avrà il compito di far crescere dal punto di vista economico e rendere sostenibile come spesa sociale uno Stato con alto debito pubblico (3 mila miliardi contro una ricchezza prodotta ogni anno di 2200 miliardi) e accentuati squilibri strutturali, dovendo anche pensare al proprio futuro. Tutto ciò che l’Italia metterà in campo sarà efficace nella misura in cui riuscirà a rendere i membri delle nuove generazioni soggetti attivi di un Paese che cambia con loro e migliora con loro. Alla base deve rafforzarsi la consapevolezza che per lo sviluppo competitivo non serve solo la mera occupazione dei giovani, ma la capacità di metterne pienamente a valore le specificità e sensibilità nei processi che generano ricchezza e benessere. Questa operazione antropologica è ciò che manca nel sistema italiano, prima ancora delle infrastrutture e della dotazione tecnologica>.



