La sfida di tornare a essere un Paese per giovani. Intervista ad Alessandro Rosina

13/05/2021
FORMA FUTURI
La sfida di tornare a essere un Paese per giovani. Intervista ad Alessandro Rosina FORMA FUTURI

I giovani da sempre rappresentano la parte più dinamica all’interno della società, quella che dovrebbe guidare il cambiamento. In Italia, come lei stesso ha “denunciato” nel suo libro “Non è un Paese per giovani”, scritto con Elisabetta Ambrosi e pubblicato nel 2009, la situazione è un po’ diversa. Ha descritto una Penisola in cui le nuove generazioni, rapinate del proprio futuro, sembrano essere imbelli e senza voce di fronte a questa ingiustizia. È cambiato qualcosa in questi ultimi dieci anni? Chi sono attualmente i giovani italiani?

Difficile dire oggi in cosa la condizione dei giovani in Italia sia migliorata. I meccanismi inceppati, che frenano la capacità di ridare vigore al Paese attraverso una inclusione solida e qualificata delle nuove generazioni nei processi di crescita del Paese, sono ancora tutti presenti e riconoscibili. L’invito contenuto nel libro era quello di riconoscere che ogni generazione è giovane in modo diverso dalle precedenti. E questo è ancor più vero in un mondo che cambia sempre più rapidamente. Davanti al ruolo debole delle nuove generazioni italiane nei processi di cambiamento del Paese c’è prima di tutto un deficit di riconoscimento del loro ruolo. Il “nuovo” che i giovani rappresentano va capito ancor prima che giudicato. Va aiutato e incoraggiato a emergere, a conquistare consapevolezza di ciò che può diventare, a raffinarsi e trarre il meglio di sé. La stessa politica deve cambiare con i giovani, rimettersi in discussione con loro, non solo ricercare strumentalmente il loro consenso al momento delle elezioni. I dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo e di altre ricerche ci dicono che la voglia di esserci e contare c’è, nonostante le difficoltà, le resistenze, le contraddizioni, ma non è aiutata ad emergere. Sono ampie le evidenze che non stiamo sottoutilizzando i giovani solo dal punto di vista occupazionale, ma rispetto alle potenzialità che possono esprimere in tutti i campi.
Coinvolgerli non è né facile, né scontato. Le modalità di ingaggio e partecipazione tradizionali funzionano sempre meno. Esiste una grande disponibilità a mobilitarsi che però fatica a trovare i canali giusti e le modalità adeguate, da sperimentare continuamente con loro.

All’estero da tempo si stanno cercando risposte al pericoloso invecchiamento della popolazione nel mondo occidentale. La Germania può essere considerata un esempio in questo senso in Europa. Le ricette per contrastare il fenomeno sono essenzialmente due: da un lato si cerca di puntare su un’immigrazione di qualità, provando a essere attrattivi per talenti che provengono da ogni parte del mondo, e dall’altro si cerca di lavorare sui servizi alla famiglia così da incentivare le nascite. In Italia come ci stiamo muovendo?

La Germania è un esempio interessante. Presentava un processo di invecchiamento peggiore rispetto al nostro, ma è riuscita a rafforzare la consistenza delle nuove generazioni attraverso un aumento del tasso di fecondità assieme a un attento governo delle immigrazioni. I risultati positivi della Germania si devono, in particolare, a un solido piano di potenziamento delle politiche familiari – in termini di sostegno economico e servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia – realizzato in concomitanza con la Grande recessione iniziata nel 2008. Ciò ha consentito non solo di limitare gli effetti negativi sulle famiglie, ma di migliorare anche il clima di fiducia che è fondamentale per la scelta di avere un figlio.
L’Italia con il Family Act sta cercando di fare ora quello che la Germania ha fatto quindici anni fa, ma stiamo procedendo troppo lentamente, nel frattempo la crisi sanitaria sta ulteriormente mettendo in difficoltà oggettiva i giovani e le famiglie ma spargendo anche grande incertezza. Tutto questo non favorisce la scelta di maggior impegno positivo verso il futuro che è quella di avere un figlio.

Mettere in atto politiche lungimiranti può attenuare lo squilibrio demografico che è sotto l’occhio di tutti, ma è difficile immaginare un’inversione di tendenza. Possiamo dire di essere arrivati a un punto di non ritorno? Qual è la causa principale del nostro ritardo?

Quello che manca all’Italia, rispetto agli altri Paesi avanzati con livelli di natalità più elevati, è una specifica e continua attenzione allo sviluppo di misure integrate che sostengano e rafforzino: i progetti dei giovani di conquistare una propria autonomia e formare una propria famiglia, i progetti delle donne e delle coppie di conciliare in modo efficace il lavoro con la scelta di avere un figlio, oltre al contrasto del rischio di impoverimento delle famiglie con figli.
Il passo preliminare è però una rivoluzione culturale che dal considerare i figli solo come bene individuale a carico dei genitori porti a considerare le nuove generazioni come interesse comune la cui presenza solida e crescita rigogliosa va a beneficio di tutta la collettività. Un cambiamento che la politica non può far da sola ma può favorire e accompagnare con misure solide e coerenti.
L’elemento di complicazione è il fatto che la demografia non consente di dimenticare semplicemente il passato e ripartire, ma presenta una forte componente inerziale: la persistenza della natalità su valori bassi sta riducendo progressivamente le potenziali madri, facendo entrare l’Italia in una spirale negativa in cui la denatalità passata accentua la denatalità futura e alimenta ulteriormente gli squilibri. Questo significa che lo stesso ritardo a invertire la rotta fa crescere il peso che ci trascina verso il basso.

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