L’Italia in cerca di futuro

01/02/2021
SPAZIO 50
L’Italia in cerca di futuro SPAZIO 50

La pandemia ha evidenziato le molteplici fragilità del nostro Paese. Tra gli ambiti più colpiti c’è quello demografico, in squilibrio ormai da anni. Tanto che dall’ultimo Censimento Istat siamo arrivati ad avere 5 “nonni” per ogni bambino. La pandemia rischia di acuire ulteriormente la cronica denatalità del nostro Paese, tra le più alte del mondo.

Quale futuro ci aspetta? Lo abbiamo chiesto al professor Alessandro Rosina, docente ordinario di Demografia alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, coordinatore del Gruppo di esperti Demografia e Covid-19 del Dipartimento per le politiche della famiglia presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Gruppo di lavoro è stato impegnato in un primo rapporto, L’impatto della pandemia Covid-19 su natalità e condizioni delle nuove generazioni.

«Lo squilibrio demografico – spiega il professor Rosina – è dovuto sostanzialmente alla riduzione della natalità ormai a livelli molto bassi. Il numero di nascite si è dimezzato rispetto alla metà degli Anni ’60. Così, una volta raggiunti i 500mila nati, il punto più basso di sempre dall’Unità d’Italia in poi, nel 2019 siamo scesi a 420mila nascite. I fattori negativi che agivano sulla natalità prima della pandemia ora rischiano di aggravarsi. I giovani, che già facevano fatica a trovare un’occupazione, hanno anche dovuto rinviare i progetti di vita che avevano all’inizio del 2020. Questo emerge dall’indagine internazionale dell’Istituto Toniolo della scorsa primavera, poi replicata in ottobre. Da un confronto con altri Paesi, come Germania, Francia e Spagna, è emerso che i giovani italiani si trovano a rinviare maggiormente i loro progetti rispetto ai coetanei. Avevamo già la più alta percentuale di “Neet” (giovani che non studiano e non lavorano), una maggiore permanenza nella famiglia di origine e un’età più tardiva dell’arrivo del primo figlio. Insomma, la pandemia rischia di aggravare ulteriormente tutti questi aspetti. In più, la crisi sanitaria ha inciso sulla conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro. Il carico delle donne all’interno della famiglia è stato ancora più accentuato. Anche i nonni, a causa del distanziamento fisico, non hanno potuto dare il proprio contributo. Inoltre, i servizi per l’infanzia sono stati chiusi. Questa situazione, unita a un tasso di occupazione femminile già molto basso, frena l’arrivo dei figli. Poi ci sono le difficoltà economiche. Siamo il Paese con il più alto rischio di impoverimento delle famiglie dal secondo figlio in poi. Ultimo punto, non meno importante, la pandemia ha aggiunto incertezza verso il futuro. Anche questo pesa nella scelta di avere figli. Secondo alcune stime dell’Istat, l’impatto maggiore sulle nascite lo vedremo nel 2021: il rischio è di scendere sotto le 400mila, il punto più basso».

Come si può invertire questa rotta?
Se li vogliamo vedere, ci sono degli elementi incoraggianti. Prima della pandemia non eravamo pronti, a livello degli altri Paesi, rispetto alle politiche famigliari. Avevamo il progetto del Family Act che stava partendo, ideato per riallineare l’Italia con le migliori esperienze europee. Tra le novità c’è l’assegno unico universale e il congedo di paternità portato ad almeno 10 giorni. Può sembrare poco ma è un segnale rilevante di condivisione. Avremmo già dovuto avere il Family Act avviato, invece ci siamo trovati sguarniti. Occorre accelerare con la protezione alle famiglie, altrimenti i costi saranno rilevanti e sarà difficile recuperare. Altro aspetto positivo è che ora abbiamo le risorse necessarie, quelle di Next Generation Eu, quindi non abbiamo più alibi. Infine, l’Italia è debole non solo per una struttura demografica squilibrata, ma anche per l’alto debito pubblico. Non possiamo scaricare sulle nuove generazioni sia gli squilibri demografici sia il debito pubblico. Per questo è fondamentale investire in formazione, politiche attive del lavoro, valorizzazione del capitale umano all’interno delle aziende e delle organizzazioni.

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