Metter su casa e avere figli: i giovani rimettono via i sogni

24/05/2020
Metter su casa e avere figli: i giovani rimettono via i sogni ECO DI BERGAMO

Addio sogni di gloria, ma anche a molto meno. Le nuove generazioni, per effetto dell’emergenza sanitaria, subiscono un impatto negativo sulla possibilità di attuare le proprie aspettative, mentre a livello Paese il timore è un’ulteriore conseguenza negativa sulla natalità, che accentua squilibri demografici tra i più gravi al mondo. Sono i risultati di una ricerca a cura di Alessandro Rosina e Francesca Luppi basata sui dati dell’indagine <Covid-19: rischio tsunami sui progetti di vita dei ventenni e trentenni italiani – I progetti interrotti e il futuro sospeso delle giovani generazioni>, promossa dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo di Milano e condotta da Ipsos tra fine marzo e inizio aprile in partnership con il ministero per le Pari opportunità e la Famiglia. L’indagine, la prima di questo genere a livello internazionale, ha interessato un campione rappresentativo di giovani, tra i 18 e i 34 anni: duemila in Italia e mille in ciascuno di altri grandi Paesi europei (Germania, Spagna e Regno Unito). <Con la prospettiva che l’emergenza sanitaria diventi crisi economica – spiega Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano –, il rischio è che si accentui la depressione delle natalità in un contesto già negativo prima dell’attuale crisi: siamo il Paese con il record di Neet in Europa (gli under 35 che non studiano e non lavorano) e con la più tardiva età delle madri alla nascita del primo figlio (oltre 32 anni)>.

Professor Rosina, eppure a inizio anno c’era qualche segnale positivo, come risulta dalla vostra indagine: oltre il 30% degli intervistati italiani pensava di andare a vivere per conto proprio, il 24% di sposarsi, il 27% di avere un figlio e il 52% di cercare un (nuovo) lavoro.

<Questo è vero, si delineava qualche apertura incoraggiante: la riscoperta di alcune capacità personali, la voglia di mettersi in gioco, il cambiamento come opportunità. Poi, però, questa propensione positiva s’è dovuta misurare con le reali possibilità di farcela e quindi con lo tsunami sanitario: di pessimismo in pessimismo. Sono proprio i giovani italiani quelli che più dei loro coetanei europei hanno abbandonato, e non semplicemente posticipato, i propri progetti di vita, almeno a breve termine. Oltre il 60% dei connazionali che abbiamo sondato crede che l’emergenza sanitaria avrà un esito negativo sui loro piani per il futuro, seguiti a breve distanza dagli spagnoli. Un andamento quasi simmetrico alla diffusione epidemica. Quanto all’intenzione di andare a convivere, sposarsi e avere figli, il nostro scarto arriva oltre i 20 punti percentuali a vantaggio dei tedeschi, i più ottimisti. Si sommano tanti fattori irrisolti e arriva l’onda lunga di più crisi, come se si accumulassero tanti strati negativi in una realtà che si gonfia e non si smuove dal suo immobilismo. I trentenni-trentacinquenni di oggi appartengono a una generazione cresciuta in un mondo nuovo, difficile da capire e stressato: l’11 Settembre 2001 con tutta la coda del terrorismo internazionale e delle varie guerre, la doppia recessione in seguito alla crisi finanziaria del 2007-2008 e ora il coronavirus. Giovani che non hanno vissuto una condizione piena di normalità e neppure di benessere consolidato. Questi tre choc storici hanno fortemente aumentato il loro senso d’insicurezza, anche perché li hanno aggrediti nella fase di crescita e di formazione dell’identità generazionale>.

Si conferma anche la vulnerabilità di genere: in Italia il 67% delle donne, contro il 55% degli uomini, pensa che i propri progetti di vita siano a rischio. Questo tipo di divario è minore negli altri Paesi e in Francia è quasi nullo.

<L’universo femminile estremizza i due poli. Le giovani sono la componente più dinamica, il cui sguardo sulla vita di tutti i giorni è fatto di riscoperta delle proprie capacità, unita alla disponibilità a rimettersi in discussione. Questo attivismo, tuttavia, le espone ad una maggiore delusione in un Paese che, come si sa, ha già un tasso di occupazione giovanile basso e di lunga durata e, per occupazione femminile, ancora minore. Le ragazze, più dei maschi, avvertono con un senso di frustrazione di vivere in un Paese che tutela l’esistente anziché investire sul nuovo e, del resto, le condizioni della ripartenza non l’hanno vista neppure dopo la recessione degli anni scorsi. La condizione giovanile è sempre la stessa, stagnante, o comunque al ribasso: c’è l’idea che nei prossimi mesi ci sarà un ripensamento autocritico nel dibattito pubblico, accompagnato però dal timore che, comunque sia, loro, i giovani sono condannati a restare in panchina>.

Il discrimine resta la condizione economica e lavorativa?

<Sì, anche se ormai abbiamo abbandonato le dinamiche del lavoro novecentesco. Tra i giovani italiani che lavorano alle dipendenze (circa il 40% del campione totale), il 23% di chi ha un contratto a tempo percepisce i propri progetti di vita come molto a rischio, contro il 15% di chi è assunto a tempo indeterminato. Se si osserva la condizione contrattuale, la percezione del rischio aumenta con il diminuire del livello di protezione dell’occupazione: il rischio percepito è maggiore per i lavoratori in proprio (35%), seguiti da coloro che hanno attivato collaborazioni a progetto, prestazioni d’opera e dagli stessi liberi professionisti (tutti intorno al 24%). Non solo: lavoratori autonomi e a progetto in oltre la metà dei casi (52,3%) dichiarano di aver abbandonato, almeno per il momento, l’idea di avere un figlio, contro il 26,8% dei lavori più protetti. I più tutelati, quindi, sono i lavoratori dipendenti (il 17% ritiene molto in pericolo i propri progetti di vita) e gli imprenditori (14%)>.

Flessibili, precari, segmenti umani a margine: si può parlare di un nuovo proletariato postindustriale?

<Per certi aspetti sì, ma con caratteristiche tipiche di una società frantumata, scarsamente coesa e tendenzialmente individualista. I giovani chiedono di essere considerati come soggetti nuovi che portano nuovo valore aggiunto. Non è solo una questione economica, di reddito, bensì di identità che rinvia alla cittadinanza: intendono essere riconosciuti e “pesati” per quel che valgono e si sentono parte attiva di un’Italia che, tuttavia, è ferma al palo e non li prende in considerazione. Sono la categoria più incerta e indefinita, meno solida e con deboli radici nel tessuto sociale: ne sono consapevoli, sanno che il loro status si consuma nel resistere in lande desertificate dall’attenzione dei più. Oltre, nelle condizioni date, non possono andare, perché non vengono adeguatamente sostenuti. Del resto, sparsi chi nei lavoretti della gig economy e chi a casa, questa generazione sospesa non è in grado di fare massa critica, di porsi come interlocutrice strutturata delle istituzioni>.

E in questo modo i Neet restano nel limbo.

<L’assenza di un reddito da lavoro crea sicuramente maggiore incertezza fra i Neet, traducendosi in un’elevata quota di abbandoni dei progetti di vita, appena sotto il livello dei lavoratori autonomi e a progetto. Tuttavia questa categoria è altamente variegata e non riducibile ad una sola dimensione: al suo interno abbiamo sia i giovani in cerca di lavoro sia gli inattivi, cioè coloro che non cercano un posto e non hanno intenzione di lavorare, magari con l’idea di dedicarsi esclusivamente alla cura della famiglia appoggiandosi sul reddito di un altro membro del nucleo familiare. Comunque la si guardi, la condizione giovanile resta difficile da afferrare e l’impatto del Covid-19 non aiuta. Solo attraverso adeguate ricerche e analisi è possibile fornire il supporto conoscitivo necessario per politiche mirate che consentano di far ripartire l’Italia con un ruolo attivo delle nuove generazioni e la loro irrinunciabile spinta di vitalità, senza la quale nessun solido futuro può essere ricostruito>.