Nell’Italia del post Covid le culle restano vuote. Se il Paese non fa figli

L’Italia non si è ancora ripresa dal Covid. Almeno per le nascite. Il nostro è uno dei Paesi europei che, con la Spagna, non ha ancora recuperato il calo delle nascite del 2020. La pandemia ha avuto un effetto negativo in tutto il continente, ma in molti casi nel 2021 il numero di nati è tornato a salire. In Francia e in Germania, per esempio. In Italia invece no. E non è una novità. «I neonati sono da lungo tempo a livelli minimi mai raggiunti nella nostra storia e proseguono lungo una discesa che sembra non avere fine», ha spiegato il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo, introducendo gli Stati generali della natalità dello scorso maggio. A luglio il rapporto Istat 2022 ha confermato la situazione: «I primi dati provvisori del 2022 – si legge nel documento – mostrano una nuova repentina spinta al ribasso. Nel primo trimestre di quest’anno si contano circa diecimila nati in meno rispetto allo stesso periodo del biennio pre-pandemico 2019-2020. Tutto ciò mentre nel panorama europeo vi sono Paesi che hanno registrato incrementi di natalità particolarmente significativi, anche rispetto agli andamenti pre-pandemici».

Per l’Italia la denatalità è un problema. Lo è da anni, in maniera sempre più marcata. E ora anche il mondo politico sembra averne preso consapevolezza. A marzo è entrata in vigore la riforma dell’Assegno unico universale, che mette ordine tra i numerosi e frammentati sussidi per i figli. Ad aprile il Parlamento ha approvato il Family Act, un’ampia legge delega per il sostegno e la valorizzazione della famiglia, che dovrà essere concretizzata dal Governo entro due anni. La tendenza negativa che prosegue da tempo verrà invertita? La risposta dipende da molti fattori.

«Certo, le politiche famigliari hanno un’associazione positiva con la fecondità, ma non basta una misura singola. Serve un insieme integrato», mette in guardia Angela Paparusso, dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr. Per esempio, prosegue, «non si decide di fare un figlio per un bonus o un’integrazione al reddito. I trasferimenti economici, da soli, non sono sufficienti». Negli Stati Ue che storicamente fanno più figli, come la Francia o i Paesi del Nord Europa, i contributi economici ci sono, ma contano anche servizi, congedi, attitudini.

«Sono importanti congedi parentali lunghi ed eguali, non solo per le donne. Laddove anche il padre si occupa dei bambini, aumenta la propensione a fare figli», riprende Paparusso, che su questo punto insiste. «Una maggiore condivisione dei compiti famigliari è funzionale a un cambiamento culturale. Più le donne partecipano al mercato del lavoro e più la fecondità aumenta», rivela. La Germania, per esempio, ha fatto crescere i bassi tassi di fertilità di metà anni Duemila facendo tornare le donne al lavoro il prima possibile e incentivando la conciliazione. Ma, per farlo, servono dei servizi adeguati, soprattutto per la fascia 0-3 anni. E, in questo, l’Italia è molto carente.

Migliorare non è facile. Da un lato, il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede investimenti importanti, in particolare negli asili nido, ma i comuni faticano a sfruttarli. Dall’altro, sarà importante capire come il Governo attuerà la legge delega. «Il Family Act sta finalmente creando una cornice nazionale. Sui territori bisognerà tenerne conto», ragiona Franca Maino, direttrice di Percorsi di secondo welfare. A suo parere «già oggi, in Italia, vi sono comunità che sperimentano soluzioni innovative nella logica del platform welfare». La piattaforma può essere uno spazio virtuale o fisico, messo a disposizione dal soggetto pubblico, in collaborazione col privato, che aggrega bisogni sociali simili, per attivare forme di welfare collaborativo.

Un esempio concreto? Più famiglie che cercano una baby-sitter su una piattaforma digitale e la condividono. Questo da un lato genera maggiori opportunità lavorative e, dall’altro, favorisce la condivisione del costo del servizio. «Alla base del welfare di piattaforma – riprende Maino – c’è il paradigma della fiducia interpersonale. Ed è proprio questa fiducia che può colmare l’incertezza che spesso frena i giovani nel diventare autonomi, formare una famiglia e avere dei figli». I tempi, però, soprattutto se si parla di fiducia, sono lunghi.

La Francia, da tempo tra i Paesi con la fertilità più alta in Ue, sono decenni che investe convintamente in politiche per la famiglia. L’Italia sta di fatto iniziando ora e con cifre inferiori. Per questo se si vogliono mitigare gli squilibri demografici cui il Paese sta andando incontro bisogna agire anche nel breve e medio termine. A questo proposito, a giugno, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile ha organizzato l’incontro «Immigrazione e futuro demografico del Paese», cui ha partecipato anche il demografo Alessandro Rosina. Il docente ha spiegato che se i flussi migratori si riducessero fin quasi annullarsi, da qui al 2050, l’Italia rischia di perdere fino a 8,5 milioni di persone tra i 28 e i 68 anni. «Da un lato l’immigrazione è un fattore rilevante per rispondere agli squilibri demografici; dall’altro – ha concluso Rosina – non possiamo pensare di attrarre immigrati senza sviluppo economico e integrazione lavorativa e sociale».