Noi giovani affamati, ma fragili

09/09/2022
Noi giovani affamati, ma fragili CORRIERE DELLA SERA - 9 SETTEMBRE 2022

Fissa un punto davanti a sé e dice: «Mi sentivo profondamente inutile, fallita». Kristal Tisi, 25 anni, ricorda bene la lettera per la seconda bocciatura. Non è ancora maggiorenne quando decide di lasciare la scuola e passare un periodo senza fare niente. Allora non studia né lavora: risulta Neet, acronimo inglese di

Not in Education, Employment or Training, non attivo in educazione, impiego o formazione. «Nella mia mente c’era come una melma oscura e vischiosa che mi stringeva il petto e miteneva ferma», racconta. Siamo in piazza Fiera a Trento, vicino al suo li[1]ceo. Quel liceo in cui «mi sono sentita tante volte inadeguata, sola». Sola, questa parola la ripete più di una volta:«Ero chiusa in me stessa, ho vissuto il mio dolore da sola».

In Italia i giovani neet under 35 risultano tre milioni. Il nostro Paese ha il numero più alto in Europa. Sono definiti «fannulloni», «rassegnati cronici» i neet. Eppure come riporta lo studio condotto dal professor Alessandro Rosina e promosso da StartNet- Network transizione scuola-lavoro, il 40% di loro sono alla ricerca di un’occupazione. Anche Kristal cerca un impiego ma ottiene un contratto solo alcuni anni dopo aver abbando[1]nato gli studi. Per un lungo periodo

lavora nella ristorazione, poi si rivol[1]ge all’agenzia del lavoro per fare un bilancio delle competenze. «È stata la svolta: prima il corso professionalizzante poi il tirocinio nell’asilo dove lavoro oggi. Ho anche riniziato a studiare, voglio diplomarmi», ammette. Il lavoro? «Deve gratificarmi». Anche Federica Salerno, 21 anni, tecnica biomedicale ha la stessa opinione: «Per me il lavoro rappresenta un mezzo di realizzazione personale». Dopo le scuole superiori lei si iscrive a un corso biennale della Fon[1]dazione Its Lombardia. Vuole entrare nel settore biomedicale. «Da piccola avevo la passione per gli aeroplanini telecomandati, ne rompevo uno al giorno e li riparavo con la colla», racconta. Da lì il corso all’Its, il periodo di formazione in un’azienda e adesso lo stage extracurriculare.

«Mi dà soddisfazione aggiustare i macchinari. E con il mio lavoro posso dedicarmi anche ad altre passioni: dopo otto ore stacco e esco con gli amici oppure faccio il corso di inglese». Esiste, ci tiene a precisare, un equilibrio tra vita reale e professionale.

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Secondo Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica all’Università Cattolica di Milano e coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’IstitutoToniolo, si percepisce una forte voglia di protagonismo, ma si crea una forte polarizzazione. «Da una parte ci sono quelli determinati, motivati e orientati al risultato che vogliono emergere portando la loro diversità come valore. E l’azienda deve adeguarsi per riconoscere quel valore aggiunto». Altrimenti? «Andiamo nella direzione opposta, se questi giovani non trovano spazio rischiano di demotivarsi, scoraggiarsi e di scivolare ai margini, perdere fiducia in sé stessi e nelle istituzioni». L’ambizione è l’elemento comune, ma ci tine a precisare Rosina, c’è in loro una fragilità di fondo maggiore rispetto alle generazioni precedenti. «Anche se hanno un contratto a tempo indeterminato, sono disposti a dimettersi se non trovano gli stimoli adeguati alle loro aspettative», aggiunge. Nominare l’ambizione significa infatti per Marta Filippi, 28 anni, attrice e doppiatrice, ripensare ai sacrifici fatti per inseguire la carriera. «Non è detto che la laurea ti permetta di realizzarti veramente», sottolinea. Lei la laurea in Archeologia l’ha presa per «atto dovuto». «Ero la prima della famiglia, c’erano alte aspettative e poi i miei genitori mi pagavano l’università -racconta-, ho stretto i denti e finito gli studi. Quella strada difficile mi ha preparato al mio sogno». Un sogno, quello del piccolo e grande schermo che continua a inseguire. Molti personaggi di film, telefim, serie d’animazione, cartoni animati hanno la sua voce. Mentre studiava doppiaggio, ricorda Filippi, lavorava anche come commessa in un negozio di scarpe. Ha rinunciato alla socialità nei fine settimana e viveva da equilibrista. Ma oggi ne è certa: «Lì ho imparato a resistere».