PENSIONI E RISCHIO DEMOGRAFICO

01/06/2022
BANCA GENERALI
PENSIONI E RISCHIO DEMOGRAFICO BANCA GENERALI

In pensione sempre più tardi, ma con assegni sempre meno generosi
È la prospettiva che attende quasi sicuramente le nuove generazioni di lavoratori italiani, che in futuro dovranno subire gli effetti di alcuni trend che sembrano inarrestabili.

Il primo è l’invecchiamento della popolazione, certificato dalle stime demografiche dell’Istat: nel 2065, secondo l’istituto nazionale di statistica, il 33% degli italiani avrà infatti più di 65 anni (contro il 23% del 2020) mentre soltanto il 14% avrà meno di 14 anni.

Questo trend demografico, porta inevitabilmente con sé un effetto: l’aumento dell’incidenza della spesa pubblica destinata alle pensioni, in un Paese sempre più anziano. Per rendersene conto, basta guardare ai dati diffusi lo scorso anno dalla Ragioneria Generale dello Stato.

Nel 2020, la spesa per le pensioni ha toccato in Italia il record storico del 17% del Pil. Più di un sesto di ciò che il nostro Paese produce ogni anno, serve dunque per pagare le gli assegni previdenziali. Negli anni ’70 del secolo scorso la spesa era attorno al 9% del Pil, per poi salire sopra il 10% negli anni ’80 e avvicinarsi progressivamente verso il 15% nel terzo millennio. Nei decenni a venire, sempre secondo la Ragioneria Generale dello Stato, la spesa per le pensioni rimarrà sopra il 16% del Pil fino al 2050, per poi planare un po’ fino al 13% nel 2070, man mano che verranno meno i generosi assegni previdenziali incassati dalla generazione del baby boom.

Ma c’è un secondo fattore che gli italiani devono considerare. Nel 1995, proprio per evitare che l’invecchiamento della popolazione facesse saltare completamente i conti del sistema pensionistico, venne approvata una riforma previdenziale (meglio nota come Riforma Dini, poi integrata nel 2011 con la Riforma Fornero) che ha cambiato radicalmente il metodo di calcolo degli assegni Inps, per i lavoratori assunti dal 1996 in poi. Prima di quell’anno l’ammontare della pensione dipendeva in gran parte dalla media degli ultimi stipendi: per gli assunti dal ’96 in poi, invece, l’importo della pensione dipende soltanto dalla quantità di contributi versati nel corso della carriera.

Purtroppo però molti giovani italiani trovano un’occupazione stabile molto tardi e affrontano spesso lunghi periodi di disoccupazione, versando così pochi contributi nel corso della carriera.

Chi ha una carriera continua, senza mai rimanere disoccupato, può arrivare a coprire con la pensione maturata il 65-70% degli ultimi stipendi, percepiti prima di mettersi a risposo. Chi invece rischia di restare senza lavoro per molto tempo rischia una pensione che non vada oltre il 50% dell’ultima retribuzione.

Per questo c’è la necessità di correre ai ripari creandosi una rendita di scorta, per non tirare pesantemente la cinghia durante la terza età. Come riuscirci? Un bravo consulente finanziario che aiuta i clienti a fare un’adeguata pianificazione finanziaria, di solito consiglia l’adesione ai fondi o alle polizze della previdenza complementare.

Cosa sono i fondi pensione?
Si tratta di strumenti finanziari che hanno appunto il compito di creare una rendita integrativa privata rispetto a quella dell’Inps, non appena il lavoratore matura il diritto ad andare in pensione secondo i requisiti di legge. In pratica, chi aderisce ai fondi pensione sceglie i di versare periodicamente in questi strumenti finanziari (in genere ogni mese oppure ogni trimestre) una parte del proprio reddito.

Chi ha un contratto da dipendente può destinarvi ogni anno il Tfr (trattamento di fine rapporto), cioè la quota di stipendio accantonata solitamente per la liquidazione. I soldi versati vengono poi investiti dai gestori dei fondi sui mercati finanziari, con diversi gradi di esposizione al rischio: chi è disposto a subire perdite nel breve periodo ma vuole avere maggiori chance di guadagno nel lungo termine sceglie di solito i fondi che investono prevalentemente in azioni.

Chi vuole invece avere rendimenti più stabili ma probabilmente meno elevati nel lungo periodo si indirizza di solito su fondi che investono prevalentemente in obbligazioni o in titoli di stato. Quando il lavoratore raggiunge l’età pensionabile e matura il diritto a incassare l’assegno dell’Inps, il capitale versato nei fondi della previdenza integrativa (più i rendimenti maturati) si trasforma in una rendita di scorta che lo accompagna vita natural durante per tutta la vecchiaia.

Crisi demografica: l’opinione di Alessandro Rosina
La previdenza complementare ha dunque una funzione molto importante in Italia anche se, come ha messo in evidenza Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, occorre un passo in più, cioè uno sforzo maggiore di tutto il Sistema Paese. Nel suo saggio intitolato “Crisi Demografica, politiche per un Paese che ha smesso di crescere”, Rosina evidenzia come l’Italia sia una delle nazioni al mondo “in cui l’inver­no demografico è più accentuato”.

Dunque, secondo l’economista della Cattolica, “se gli attuali trend non verranno invertiti, inevitabilmente si andrà incontro a criticità irrimediabili”. Questo perché l’Italia, oltre ad avere una popolazione longeva come molte altri paesi industriali avanzati, purtroppo anche un basso tasso di natalità. Non che i nostri connazionali desiderino meno figli rispetto agli stranieri; piuttosto, per Rosina a sud delle Alpi ci sono “politiche meno efficienti a favore delle famiglie e delle nuove generazioni”.

Per questo Rosina nel suo libro indica politiche di sistema (dai servizi per l’infanzia all’assegno unico e universale per i figli, fino a incisive riforme del lavoro) per consentire alle “nuove generazioni di sentirsi davvero protagoniste in un Paese che cresce con loro”.