Se l’Italia rinuncia alla sua parte migliore

07/10/2019
RASSEGNA
Se l’Italia rinuncia alla sua parte migliore RASSEGNA

Quasi 250 mila giovani, per lo più con un livello di istruzione alto, persi negli ultimi 10 anni. È l’impietosa fotografia scattata dal Rapporto 2019 sull’economia dell’immigrazione in Italia, realizzato dalla Fondazione Leone Moressa e presentato l’8 ottobre a Roma, nella cornice di Palazzo Chigi. Un dato che suona come un vero e proprio campanello d’allarme (è come se dal suolo patrio si fosse dissolta un po’ alla volta una città dalle dimensioni medio-grandi) e che non fa che confermare un trend – riguardante naturalmente un ampio spettro di fasce di età, non solo gli under 35 – responsabile della perdita di circa 500 mila nostri connazionali (saldo tra partenze e rientri), che congiuntamente al crollo delle nascite ha alimentato nel nostro Paese il preoccupante fenomeno del declino demografico.

“Si tratta di un dato che va letto avendo chiaro come il mondo sta cambiando – commenta a Rassegna Alessandro Rosina, docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano – e come di conseguenza evolve il sistema di rischi e opportunità all’interno del quale i giovani fanno le proprie scelte. La facilità di spostamento e di accesso a opportunità presenti in qualsiasi luogo del mondo, rendono molto più comune e praticabile oggi la scelta di viaggiare per svago, studio e lavoro. Expat è un neologismo nato per indicare chi si sente parte di un mondo in movimento. Si nasce in un luogo, ci si forma in un altro, si va a vivere in un altro ancora: tutti questi, più che punti statici di un passato lasciato alle spalle, sono nodi di una rete di rapporti affettivi, di amicizia, di lavoro, in connessione continua. Questo è positivo finché si rimane nel dominio delle scelte e delle opportunità, ovvero finché con la stessa facilità, oltre a partire si può decidere di tornare, ma anche di rimanere. Molto meno se, come troppo spesso accade in Italia, si parte soprattutto per necessità; se conta più il motivo per cui si lascia che il desiderio verso cui si tende; se una volta partiti diventa poi difficile tornare e se una volta all’estero ci si sente poi dimenticati dal proprio Paese”.

Rassegna Quali risultano essere le conseguenze di una scelta a emigrare dettata non (o non esclusivamente) dalla propria volontà, ma da cause di forza maggiore?

Rosina La prima e più drammatica che mi viene in mente è una rinuncia a trovare valorizzazione nel proprio Paese per i singoli e una perdita di capitale umano che indebolisce le forze più qualificate e dinamiche del territorio da cui si parte. Una spirale negativa che va assolutamente spezzata. I dati dell’Istituto Toniolo mostrano come la domanda che si fanno gli attuali studenti universitari italiani non sia più tanto se partire, ma se valga la pena rimanere.

Rassegna La fuga dei giovani ci costa dai 14 ai 16 miliardi (la prima stima è dell’ex ministro dell’Economia Giovanni Tria, la seconda – misurata sul dato numerico, emerso dal Rapporto, relativo a chi è emigrato – è della stessa Fondazione Moressa). Un enorme sperpero di risorse, sia per il sistema-Paese che per le famiglie italiane, considerando che si tratta da un lato del risultato del mancato Pil prodotto e, dall’altro, di quanto investito (anche dallo Stato) in istruzione e formazione. C’è qualcosa che non torna.

Rosina Sì, è vero, “i conti” non tornano, ma alla base il problema vero sono “i giovani” che non tornano. Il problema infatti non è in sé la quantità di persone che partono, ma i motivi per cui partono e la quantità di chi torna o viene attratto dal nostro Paese. Andrebbe anche bene se fossero di più ad andare, ma per scelta e con altrettanti o di più che fanno il percorso opposto. Ma invece di una circolazione dei talenti, con accezione ampia del termine, in Italia subiamo una perdita netta. Questo è il costo maggiore che il nostro Paese – che già ha meno giovani e meno laureati degli altri con cui ci confrontiamo – sta pagando nel costruire un futuro solido e prosperoso.

 

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