Il servizio civile rifugio per i giovani disoccupati

08/05/2017
LA STAMPA
Il servizio civile rifugio per i giovani disoccupati LA STAMPA

In tre anni il loro numero è più che triplicato: erano 15mila nel 2014, sono quasi 50mila nel 2017. In tempi di crisi, 433 euro possono far comodo soprattutto se, in un caso su 4, al termine del servizio civile si viene assunti dove si è lavorato per un anno. «Motivazioni ideali, desiderio di una diversa esperienza di impegno e difficili condizioni del mercato del lavoro», spiega così il boom di “civilisti” Gianfranco Viesti, ordinario di Economia all’università di Bari. A 6 mesi dalla fine del servizio civile, secondo i dati Inapp, un ragazzo su 3 risulta occupato (33,5%): tra questi, il 22,5% trova lavoro attraverso l’ente al quale era stato assegnato. La Stampa ha incrociato esperienze sul campo dei volontari con indagini dei principali esperti del fenomeno, visitando alcuni dei 4mila enti accreditati.

«Negli ultimi due anni le domande hanno superato di oltre tre volte il numero di posti disponibili- spiega Luigi Coluccino, rappresentante nazionale del settore e volontario a sua volta alle Acli-. Nel corso degli anni sono cambiate forme e tipologia dei progetti, adattandosi alle esigenze del Paese. La logica dell’alternanza al servizio militare obbligatorio resta un passaggio storico ma è distante dalle dinamiche attuali». Oggi funziona il passaparola dei volontari che nel 95% dei casi la descrivono come un’esperienza positiva di difesa non armata della patria: «la situazione del mercato del lavoro ha un’incidenza e un’esperienza retribuita è ovviamente appetibile per un disoccupato».

L’età di chi può presentare domanda «coincide con il profilo del giovane alla ricerca di lavoro», perciò la delega per il servizio civile è stata assegnata al Ministero del lavoro. Da poco è cambiato anche il nome del servizio civile: da nazionale a universale. Una novità è che si può lavorare fino a tre mesi in un altro paese dell’Ue.

Dennis Cova, 26 anni, ha appena terminato il suo periodo alla biblioteca «Achille Marazza» di Borgomanero, in provincia di Novara e cita «La meglio gioventù», il film di Marco Tullio Giordana: «L’Italia è un paese da distruggere, un posto bello e inutile destinato a morire». Per lui il servizio civile è «un valido salvagente e un ammortizzatore sociale: chi non trova un impiego può ricorrere a questo periodo comunque retribuito». E «chi fa domanda è motivato e chiede spesso di andare in prima linea, tra i terremotati e i rifugiati».

Dal 2001 a oggi, quasi mezzo milione di italiani (nella fascia d’età 18-29) ha lavorato per un anno (30 ore settimanali) nell’assistenza socio-educativa, nell’agricoltura sociale e in attività di pubblica utilità in zone di montagna. La metà dei “civilisti” risiede nel Mezzogiorno o nelle isole e per l’85% vive ancora in famiglia. Solo uno su quattro ha lavorato prima di svolgere il servizio civile. Il 65% dei volontari sono donne e l’86% è disposto a cambiare regione per lavorare. Il 67% ha fatto domanda per “motivazioni personalistiche” (avvicinarsi al mondo del lavoro, guadagnare qualcosa, acquisire competenze). Il 33% per spirito di solidarietà. «In una condizione di elevata disoccupazione giovanile e di condizioni di lavoro spesso a bassissima remunerazione e incerte, un’occupazione, per quanto pagata pochissimo (433 euro al mese, 4 euro all’ora) può apparire persino appetibile rispetto agli stage non pagati – analizza la sociologa Chiara Saraceno-. Fa curriculum, può essere spesa come esperienza lavorativa oltreché di impegno civile, consente di mettere un piede in un settore del mercato del lavoro, quello del non profit, che ha tenuto meglio, negli anni della crisi, rispetto al settore profit».

C’è però il rischio, avvisa la professoressa Saraceno, di «una visione distorta dello stesso servizio civile promossa al più alto livello istituzionale, che lo rende non già una scelta di partecipazione civile alla costruzione del bene comune, ma una sotto-occupazione in mancanza di meglio». Però «il fatto che chi fa domanda di servizio civile universale richieda di andare in prima linea segnala, il desiderio di fare qualche cosa di utile per la collettività». Quindi «le associazioni che li utilizzano hanno una grande responsabilità: devono evitare di trasformare il servizio civile in una esperienza di sfruttamento, mancanza di riconoscimento, o anche solo di sensazione di inutilità, sprecando, se non uccidendo sul nascere, una forte motivazione etico-civile, come succedeva a volte anche con il vecchio servizio civile». Alessandro Rosina ordinario di demografia e statistica sociale, dirige all’università Cattolica di Milano il dipartimento di Scienze statistiche ed è l’autore della sezione sul servizio civile del Rapporto giovani 2016.

«Ad essere più attivi nel sociale non sono tanto quelli spinti dalle carenze di opportunità ma quelli attratti dalla possibilità di mettersi alla prova per fare concretamente qualcosa di utile e di valore». Il servizio civile non deve essere «ammortizzatore sociale, ufficio di collocamento o surrogato del lavoro: non un parcheggio per chi non trova di meglio, ma un laboratorio per rafforzare competenze ed essere cittadino attivo». I “millennials” sono «meno ideologici dei genitori e dei nonni», perciò «la retribuzione è un valore aggiunto, non una contraddizione del loro slancio ideale».

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