Siamo un Paese di vecchi, ecco la madre di tutti i nostri guai

18/04/2019
ROLLING STONE
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Crollo delle nascite. Emergenza culle. Bomba sociale. Sono questi termini e toni con cui negli ultimi tempi viene affronta la questione demografica in Italia, spesso sovrapponendola in maniera più o meno strumentale ad altri temi, dalla famiglia e i diritti civili fino all’immigrazione. L’argomento, per definizione, è uno di quelli su cui si gioca il futuro di una nazione, a cominciare dalla possibilità di averne uno. Che le nostre statistiche in merito non siano tra le più invidiabili è fatto noto. Secondo dati Istat, rispetto ai 60,6 milioni del 2017, la popolazione residente calerà fino a 59 milioni nel 2045 e a 54,1 milioni nel 2065. Oggi abbiamo un’età media molto elevata, attorno ai 45,2 anni. Lo confermano i numeri diffusi dall’Ocse pochi giorni fa, secondo cui tra i Paesi dell’organizzazione l’Italia è quella con la più bassa quota di giovani tra i 15 e i 29 anni, il 15% contro la media del 19%, e, soprattutto, contro il 23% del 1960.

Quanto siamo nei guai, e quanto lo saranno i nostri figli? Che conseguenza avranno questa variabile sulla società e su un’economia non proprio florida in questo momento storico? E cosa si può fare per provare a invertire una rotta? Abbiamo girato queste domande ad Alessandro Rosina, professore di Demografia alla Cattolica di Milano e autore del libro Il futuro non invecchia.

Quanto è corretto un approccio “catastrofista” alla questione?
L’Italia è uno dei Paesi con il più accentuato invecchiamento della popolazione al mondo. Questo perché siamo allo stesso tempo uno dei Paesi con maggior longevità e con la maggior riduzione della presenza di giovani. Il vivere a lungo e bene, chiaramente, è un processo positivo, che dovremmo incoraggiare. Ma l’obiettivo è sostenibile solo in una popolazione che ha una solida consistenza di giovani, che vanno a rafforzare l’asse portante della produzione di ricchezza e benessere nel territorio in cui vivono.

Invece da noi si è creato un forte squilibrio tra vecchie e giovani generazioni.
Che stiamo aggravando, come conseguenza della persistente denatalità. Il numero medio di figli per donna da noi è attorno a 1,32, molto sotto al livello di 2,1 che consente un adeguato equilibrio tra generazioni. Con una natalità così bassa, in ogni nuova generazione, i figli sono sistematicamente di meno dei genitori e ancor meno dei nonni. L’Italia ha portato lo squilibrio a livelli tali da trovarsi con un numero di nati inferiore alla popolazione di ottant’anni. Non si tratta di essere catastrofisti, ma di prendere seriamente atto delle trasformazioni demografiche in corso. E rispondere con adeguate scelte politiche, in grado di ridare vitalità e solidità ai processi di sviluppo del Paese.

Quali sono le conseguenze di un simile invecchiamento?
In un Paese che mantiene una fecondità non troppo inferiore ai due figli per donna, l’aumento della longevità fa conquistare gradualmente anni di vita in età avanzata senza far mancare la forza di sostegno della popolazione in età attiva. Se invece, come avviene in Italia, la fecondità rimane sensibilmente sotto tale soglia, il costo dell’aumento della longevità – in termini di spesa per pensioni e salute pubblica – diventa sempre meno sostenibile, perché la denatalità va a erodere la capacità del Paese di produrre ricchezza.

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