Solitudine, epidemia globale. I dati in Italia

29/05/2018
BISINESS INSIDER
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Se dovessimo stare ai numeri, il nostro paese è ormai abitato da una popolazione di persone sole. 8,5 milionisono infatti gli italiani che vivono da soli (40% vedovi, 39% celibi o nubili, 21% separati), mentre più di una famiglia su tre, 31,6%, è composta da una sola persona.

Secondo l’ultimo Rapporto annuale Istat 2018, inoltre, circa 3 milioni di persone dichiarano di non avere una rete di amici, né una rete di sostegno, né partecipano a una rete di volontari organizzati. La quota di persone senza reti esterne alla famiglia è più alta tra le persone che vivono da sole (7,7%) ed è massima tra gli anziani (15,6%). Il 42,4% di chi vive con i familiari si dichiara molto soddisfatto per la propria vita rispetto al 33,5% di chi vive da solo.

La relazione tra vivere soli e sentirsi soli, però, non è univoca ma molto complessa, come sostengono sociologi ed esperti di psicologia sociale.

Le città non aiutano certamente le relazioni tra le persone”, spiega la psicoterapeuta e ricercatrice Roberta Milanese, “così come non aiuta la famiglia sempre più piccola, che non funziona più da rete sociale come un tempo quella patriarcale, dove c’erano anche nonni e zii. Ma occorre distinguere tra solitudine scelta, che può persino arricchire, o solitudine subìta: c’è una differenza fondamentale”.

La solitudine? Non per forza negativa

Mette l’accento sulla distinzione tra una solitudine “positiva” e una “negativa” anche la scrittrice e psicoanalista junghiana Marta Tibaldi, docente di Psicologia interculturale a Siena:

Quando pensiamo alla solitudine in termini psicologici di solito tendiamo ad associarla a qualcosa di negativo, forse perché abbiamo già in mente un’idea tendenzialmente negativa della solitudine, che di solito deriva da pregiudizi su ciò che è la felicità: essere giovani, allegri, eccitati, in compagnia. La nostra cultura tende a valorizzare la dimensione psicologica estroversa ed esterna e quindi tutto ciò che non è tale tende a essere caricato di ombra, senza sapere che si tratta di due facce della medesima realtà e che entrambe(estroversione/introversione; stare in compagnia/stare da soli etc.) sono necessarie per un buon equilibrio psichico.

Pressione sociale, ma anche individualismo e narcisismo

Ma quando la solitudine ci fa star male? Per rispondere a questa domanda bisogna spostare l’attenzione su cosa è cambiato negli ultimi anni:

Quello che riscontro in terapia ormai da vent’anni è un aumento delle richieste che vengono fatte ai singoli. Il mondo è diventato molto “demanding”, richiede performance sempre più alte e di conseguenza è aumentata a dismisura la paura del giudizio altrui, il senso di inadeguatezza, che produce come conseguenza proprio l’isolamento, il rifiuto della relazione, la perdita del contatto, talvolta la chiusura fisica dentro una stanza, magari con un computer che crea attraverso i social media una sensazione fittizia di socialità”.

Mette maggiormente l’accento sulle responsabilità dei singoli, invece, Marta Tibaldi:

Naturalmente esistono solitudini specificamente patologiche che possono essere legate a timidezza, fobia sociale, paura di affrontare la vita, disturbo evitante di personalità, depressione, ideazioni paranoidi, fobia dell’attaccamento, dipendenze patologiche, autismo ecc. Ma a crescere, dal mio osservatorio, è soprattutto la difficoltà delle persone a sviluppare un pensiero critico, ovvero fermarsi, riflettere, creare uno spazio di pensabilità per le emozioni che provano, per le idee (spesso preconcette) che hanno. Collettivamente possiamo dire che dal tempo iniziale della psicoanalisi, quello della repressione super-egoica per intenderci, siamo passati a uno sdoganamento acritico e irresponsabile delle emozioni. Ma quando l’individualismo, il narcisismo individuale e collettivo va in direzione opposta a quella dell’empatia, della condivisione, del sostegno, di una buona socialità ci si sente ragionevolmente soli. In questi casi si tratta di solitudine subìta che certamente si può trasformare in una solitudine psicologica patologica”.

Non è un caso che, sempre secondo l’Istat, più della metà delle persone attive in associazioni o gruppi di volontariato si dichiara molto soddisfatta della propria vita (contro il 40% dei non volontari) e la relazione positiva tra benessere e associazionismo aumenta con l’avanzare dell’età, con effetti positivi su diversi ambiti di vita.

La solitudine sociale di famiglie e giovani

Al al di là dei valori e dei comportamenti dei singoli, esiste una solitudine negativa causata in maniera diretta da scarsa assistenza sociale e da un welfare inadeguato o mancante. Sempre secondo l’Istat, usando un indicatore condiviso a livello di europeo che misura la percezione del sostegno sociale, si nota che il 17,2% degli individui in Italia si sente privo o quasi di sostegno e che nel confronto con l’Unione Europea l’Italia mostra, sempre rispetto alla percezione del sostegno, una maggiore fragilità per tutte le classi di età. C’è inoltre un eccesso di solitudine per gli anziani, che trascorrono il 70% del tempo da soli senza alcuna compagnia, e una scarsità di solitudine per i bambini tra i 6 e i 13 anni e le loro madri, che trascorrono da sole 3 ore e 31 minuti, 1,45 minuti in meno delle coetanee senza figli.

La solitudine che nasce da problemi personali”, dice sempre Tibaldi, “è diversa dalla solitudine, ad esempio, dell’anziano, che rimane solo perché è malato, debole, non autonomo etc. In questo caso la sua solitudine è sociale e subìta. Anche all’interno della famiglia ci si può sentire soli quando le fatiche quotidiane non sono riconosciute né sostenute, ma all’opposto anche quando una donna non può ‘stare da sola’ con se stessa, in senso buono, ‘staccando’ dagli impegni materiali etc. perché senza supportisociali”.

Ha parlato non a caso di “solitudine delle famiglie italiane” (nel libro dall’omonimo titolo, edito dal Mulino) anche il sociologo ed esperto di welfare Alessandro Rosina, Docente di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano.

L’Italia è uno dei paesi con peggior combinazione di bassa fecondità, povertà delle famiglie con figli, elevato numero di Neet (giovani che non studiano e non lavorano). Le categorie più in difficoltà, più a rischio di esclusione sociale, sono quelle che hanno progressivamente visto aumentare il rischio di povertà o la rinuncia a realizzare i propri progetti di vita. L’impoverimento del ceto medio italiano e la bassa vitalità demografica indicano una compressione verso il basso delle condizioni e delle scelte delle famiglie in generale, con aumento delle diseguaglianze evidenziato dalla bassa mobilità sociale. Ancor più marcato è stato l’impoverimento delle famiglie con persona di riferimento under 35”.

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