“Subito misure sulle nascite o il declino sarà irreversibile”

02/01/2023
“Subito misure sulle nascite o il declino sarà irreversibile” LA VERITA' - 2 Gennaio 2023

Quanto pesa l’aspetto economico e quanto quello culturale sulla bassa natalità?

«Se quando arriva un figlio la coppia riesce ad affrontare positivamente l’impatto sull’organizzazione familiare (senza dover rinunciare al lavoro di uno dei due) e i costi (senza esporsi troppo al rischio impoverimento), più facilmente tenderà a prendere in considerazione la possibilità di averne un altro. È il realizzarsi di tali condizioni che più manca nel nostro paese rispetto agli altri con cui ci confrontiamo».

Che ci dice questo confronto?

«Quello che fa la differenza tra l’Italia e il resto d’Europa non è il numero medio di figli desiderato (attorno a 2, come evidenziano i dati Istat ed Eurostat), ma quello effettivamente realizzato, in Italia pari a 1,25. Le coppie italiane rinunciano maggiormente a realizzare gli obiettivi familiari desiderati».

Cosa determina tale rinuncia?

«La carenza di politiche solide ed efficaci va a rafforzare l’idea che avere un figlio non è considerato un bene collettivo su cui tutta la società investe, ma soprattutto un costo privato a carico dei genitori. La combinazione tra basso valore collettivo assegnato a tale scelta e contesto generale di incertezza non porta a smettere di desiderare di avere un figlio ma, piuttosto, a lasciare sospesa la decisione, intanto però il tempo passa e diventa implicitamente una rinuncia. Siamo diventati un paese dalle scelte deboli, sia sul versante collettivo delle politiche da attuare, sia nella dimensione individuale dei progetti da realizzare».

Perché c’è poco interesse verso le misure a sostegno della natalità?

«Alla base ci sono due idee implicite discutibili. La prima è che favorire i desideri di realizzazione in ambito familiare, delle condizioni di felicità e benessere che possono derivare dalla libera scelta di avere un figlio e vederlo crescere, non sia importante e tantomeno un obiettivo rilevante per le politiche pubbliche. La seconda è che basti la popolazione matura per garantire uno sviluppo sostenibile, mentre la scarsa presenza delle nuove generazioni non sia un problema, magari anzi un vantaggio. Un incubo dal quale le nuove generazioni possono sottrarsi emigrando in paesi che offrono più spazi e opportunità».

C’entra il nichilismo da cui sembra essere avvolta la società?

«Solo per una parte minoritaria della popolazione. Nella gran parte dei casi, più che di rifiuto di generare una vita si tratta di rinuncia. Anche nel confronto con gli altri paesi, non è maggiore in Italia la quota di chi nega il valore di tale scelta, ma più spesso ci si confronta con una scelta debole con politiche deboli a sostegno della sua piena realizzazione. Non si sceglie di nascere, ma si sceglie di essere genitori. Chiedersi cosa stia alla base della scelta di avere un figlio, quale significato individuale e collettivo le viene attribuito, è quindi una domanda che va a porsi al centro della questione di quale società si vuole costruire, con quali prospettive e quali valori di riferimento. È la scelta centrale di questo secolo».

Perché lo scenario demografico italiano odierno è disastroso? Cosa rischiamo?

«Quando il tasso di fecondità rimane posizionato attorno a 2, la popolazione smette di crescere, o diminuisce lentamente. Se invece tale indicatore scende repentinamente e rimane a lungo sensibilmente sotto tale livello, come è il caso dell’Italia, si determina un’alterazione strutturale con forti ripercussioni negative sul fronte sociale ed economico».

In che termini?

«La denatalità erode progressivamente la componente attiva del sistema economico e sociale, a fronte di un accentuato aumento della componente più matura. Se, inoltre, le risorse sono sempre più assorbite dalla crescente popolazione anziana, tendono a scendere gli investimenti verso le generazioni più giovani, vincolando lo sviluppo competitivo del paese. Va considerato che la denatalità tende ad autoalimentarsi, innescando un processo di avvitamento continuo verso il basso: le poche nascite passate riducono la popolazione oggi nell’età in cui si forma una propria famiglia. Più si aspetta, quindi, più diventa difficile uscire da tale spirale negativa e invertire la tendenza. Secondo le stime Ocse, siamo il paese che maggiormente rischia di trovarsi a metà secolo con un rapporto di 1 a 1 tra popolazione in pensione e lavoratori. Uno scenario del tutto insostenibile. Ci sarà un momento in cui non potremo più fingere di poter riuscire a farcela. A un certo punto bisognerà semplicemente ammettere di essere entrati in una fase di irreversibile declino e non rimarrà altro che gestirne i costi sociali».

L’Istat non esclude un ritorno a 500.000 nascite all’anno: è davvero possibile?

«Le nascite in Italia sono scese da oltre 550.000 nel  2010 a 420.000 nel 2019. La pandemia ha contribuito a farle scendere ulteriormente sotto 400.000. Si potrà risalire a 500.000 solo se l’inversione inizia subito e viene sostenuta in modo solido. Per riuscirci la media di 1,25 figli per donna dovrebbe salire fino a 1,65 nel 2037, un livello comunque sotto la Francia, attualmente attorno a 1,8. Difficile ma non impossibile. La Germania è passata da 1,33 nel 2006 a 1,6 nel 2016. La Svezia è salita da circa 1,5 nel 1999 a oltre 1,9 nel 2009».

Che cosa bisogna fare?

«Dobbiamo mettere in campo tutte le risorse e la capacità di implementazione necessarie, ma anche favorire un consenso condiviso su risultati attesi e desiderati. Bisogna combinare politiche familiari con condizioni che portano al rialzo anche occupazione giovanile, partecipazione femminile al mercato del lavoro, immigrazione di qualità in grado di rinsaldare la forza lavoro nel breve periodo. Tutto un paese, non solo la politica, deve muoversi nella stessa direzione».

Che cosa pensa del Family act?

«Con il Family act l’Italia è finalmente passata da politiche familiari costituite da un insieme di misure frammentate ed estemporanee, quindi spesso anche inique e inefficienti, a un pacchetto coerente e integrato. Al di là dei singoli contenuti – che possono essere rivisti e migliorati – la combinazione tra impostazione sistemica e consenso ampio oltre gli schieramenti politici, costituisce una novità importante. Oltre all’impianto serve ora soprattutto una realizzazione piena, urgente ed efficace».

Quali politiche familiari potrebbero aiutare lo sviluppo demografico?

«Serve la migliore combinazione tra l’uso delle risorse di Next generation Eu, l’attuazione delle misure integrate previste nel Family act, un clima del paese che torni a essere incoraggiante verso le scelte del presente che impegnano positivamente verso il futuro».

L’Italia ha il record di Neet, cioè giovani che non studiano e non lavorano: sono il 30% nella fascia 25-34 anni.

«È la conseguenza di limiti e fragilità italiane nella transizione scuola-lavoro e nella transizione, in generale, alla vita adulta. Tale condizione porta a una lunga dipendenza dalla famiglia di origine e quindi a posticipare i tempi per conquistare una propria autonomia e formare una propria famiglia. Non è un caso che i giovani italiani siano quelli in Europa che presentano l’età media più avanzata di arrivo del primo figlio. Su questo fronte le carenze riguardano le politiche abitative e le politiche attive del lavoro. Rispetto ai coetanei degli altri paesi è molto più comune dover ricorrere all’aiuto dei genitori per sostenere i costi di una abitazione e trovare lavoro affidandosi a conoscenze e segnalazioni più che ai canali formali dei servizi per l’impiego. Vanno rafforzati i percorsi di formazione professionale e l’apprendistato. Servono, in generale, soprattutto politiche che si rivolgano direttamente ai giovani come cittadini attivi e responsabilizzati. Il messaggio che deve arrivare ai giovani è che se studi e ti formi bene, potrai contare su strumenti efficaci che ti aiutano a trovare la collocazione in cui poter dare il meglio di te».

Il reddito di cittadinanza ha contribuito? Lo abolirebbe?

«Senza efficaci politiche attive del lavoro, è più uno strumento di protezione dal rischio di povertà che di promozione sociale. Di per sé non risolleva i giovani dalla condizione di Neet, ma li trasforma da dipendenti dai genitori a dipendenti dallo Stato. Più che abolirlo, va senz’altro migliorato».

Nel suo ultimo libro lei mostra che spesso momenti critici come le pandemie sono stati seguiti da tendenze demografiche positive. Che lezione possiamo apprendere dalla storia demografica dell’Italia?

«Nel passato, compreso il periodo del miracolo economico del secondo dopoguerra, benessere e sviluppo erano alimentati da un’ampia base demografica che dava spinta e dinamismo alla forza lavoro e solidità al sistema sociale. Oggi, in modo del tutto inedito, quelle condizioni non ci sono più. Va trovato un modo nuovo di garantire sostenibilità sociale e produzione di benessere non solo con una popolazione anziana in aumento, ma soprattutto con una diminuzione strutturale della popolazione in età lavorativa. Nella politica e nel dibattito pubblico non c’è ancora la consapevolezza di essere entrati in questa fase nuova».

Lei invita a guardare non al passato, ma al futuro.

«Non abbiamo alternative. Va colta la discontinuità della pandemia per superare i limiti del passato e per iniziare una fase di sviluppo su basi nuove. I margini per farlo ci sono se si rimettono al centro i progetti di vita delle persone e la loro inclusione attiva e qualificata nei processi che generano benessere. Se dopo la seconda guerra mondiale l’Italia è ripartita dalla ricostruzione materiale delle infrastrutture distrutte (edifici, ponti, rete di comunicazione, impianti), oggi serve uno sforzo analogo che parta però dal rafforzamento e rinnovo dell’infrastruttura sociale. Il successo delle politiche in tale direzione lo si vedrà dalla misura in cui natalità, occupazione femminile e giovanile, riusciranno a crescere in modo integrato e inclusivo».