Ultima chiamata: è la nostra base che sparisce

21/03/2022
Ultima chiamata: è la nostra base che sparisce IL FATTO QUOTIDIANO

“In Italia il divario fra numero desiderato e numero realizzato di figli è più alto che in Paesi come Francia e Svezia”. Gli ultimi, disastrosi, dati Istat sulla natalità in Italia si possono raccontare anche così, come lo scarto tra desiderio e realtà. Ne parliamo con Alessandro Rosina, classe 1968, ordinario di Demografia e Statistica sociale alla Cattolica di Milano e autore in questi mesi del saggio Crisi demografica (Vita e pensiero).

Professore, perché abbiamo il più basso tasso di fecondità?

I giovani hanno maggiori difficoltà a conquistarsi un’autonomia, ad accedere all’abitazione, a trovare lavoro e ad avere una continuità di reddito e questi fattori si ripercuotono sull’età a cui si riesce ad avere figli: l’età media in cui una donna ha il primo figlio in Italia è intorno ai 31,5 anni, fra le più alte in Europa. La fragilità nelle condizioni dei giovani è testimoniata, fra le altre cose, dal fatto che abbiamo la più alta percentuale di Neet (giovani che né studiano né lavorano), con un record nella fascia 30-34 anni.

Quindi è un problema di mercato del lavoro.

Senza un lavoro che consente un reddito continuativo, sempre più giovani dipendono economicamente dalle generazioni precedenti e diventa per loro più difficile immaginarsi come genitori. In Italia, poi, dopo l’arrivo del primo figlio ci si scontra più che in altri Paesi con le carenze degli strumenti di conciliazione fra lavoro e famiglia: spesso non si trovano asili nido, si ha difficoltà ad avere un congedo, il part-time diventa un vincolo, c’è difficoltà nella collaborazione dei padri tra le mura domestiche.

Quindi c’è un tema anche di servizi pubblici.

La copertura dei servizi per l’infanzia in Italia è ancora intorno al 26%, mentre l’obiettivo europeo per il 2010 era il 33%: dopo oltre dieci anni siamo ancora sotto a quel target, mentre Paesi come Svezia e Francia hanno una copertura superiore al 50%. Ci sono problemi di accesso in termini di costi e di qualità, con disparità molto ampie fra Nord e Sud.

Perché il part-time è un problema?

In Italia il ricorso al tempo parziale è più o meno in linea con la media europea, ma da noi per due terzi è imposto dalle aziende e per un terzo è scelto liberamente, mentre nel resto d’Europa avviene il contrario. Se il part-time non è scelto e non è dunque reversibile, diventa un boomerang per la conciliazione lavoro-famiglia.

Qual è il rapporto fra nascite e diffusione della povertà?

In Italia la scelta di avere un figlio espone maggiormente al rischio di povertà e questo legame è aumentato nel tempo. Inoltre, il rischio di povertà assoluta per le famiglie under-35 è circa il doppio di quello per le famiglie over-65. E ancora: l’incertezza sugli investimenti per lo sviluppo e sulle opportunità per le nuove generazioni fa sì che spesso le famiglie lascino in sospeso la scelta maggiormente impegnativa per il futuro, quella di avere un figlio. Più passa il tempo, più quella scelta sospesa diventa rinuncia.

Quali conseguenze concrete ha la trappola demografica?

Non mettendo le persone nelle condizioni di entrare nei tempi e nei modi giusti nel mondo del lavoro, di formare una famiglia e di avere figli, si producono delle rinunce. Ciò si ripercuote su tutta la popolazione. La denatalità passata riduce le nascite future, perché rende sempre più deboli a livello demografico le generazioni che via via entrano nella vita adulta. Un circolo vizioso. Esatto. Stiamo depotenziando la base vitale del Paese, perché progressivamente si riducono le persone che possono formare nuove famiglie e avere figli. È urgente agire subito: più aspettiamo, più la trappola demografica ci vincola verso il basso.

Quali errori sono stati commessi nel passato?

Al di là delle singole misure, ciò che conta è l’approccio. In Italia abbiamo sempre avuto politiche familiari frammentate, incerte e deboli. La Francia, ad esempio, ha realizzato politiche integrate, solide, continue e rafforzate nel tempo. Questo ha dato sicurezza alle famiglie. C’è anche un messaggio culturale: investire nelle politiche per le famiglie con figli significa che i figli non sono solo un costo privato, ma un bene pubblico su cui tutta la società investe.

Altri esempi a cui guardare?

La Svezia, dove le misure familiari si rivolgono egualmente a madri e padri e così evitano di far ricadere solo sulle madri la scelta di avere un figlio. Le politiche di conciliazione sono anche di condivisione. O la Germania, dove le politiche familiari sono state messe al centro dello sviluppo del Paese. In Italia invece sono sempre state marginali, pensate non in funzione dell’obiettivo, ma dei soldi trovati nelle varie “finanziarie”.

Oggi, soprattutto per timore dell’inflazione, si parla di ridurre il sostegno all’economia: politiche restrittive non rischiano di aggravare la situazione demografica?

Certamente. Se non rafforziamo l’infrastruttura sociale del Paese, se obblighiamo le persone a fare rinunce e non permettiamo loro di conciliare lavoro e famiglia, avremo sia meno occupazione sia meno natalità. Ciò manterrà l’Italia in un percorso di basso sviluppo. Oggi abbiamo l’ultima occasione per invertire la tendenza: agganciare alla fine della pandemia una ripresa solida, anche della natalità.