I diritti del futuro da rimettere al centro

Al tema del futuro è dedicato il Festival del Diritto che si tiene in questi giorni a Piacenza, con un programma che ruota attorno all’irrisolta domanda “Quale significato riveste il ‘futuro’ per il diritto?”.

Il divario tra un’Italia che resiste alla crisi e una che è stata lasciata scivolare sempre più ai margini è diventato sempre più visibile negli ultimi anni. Si sono estese le periferie del disagio, non solo urbane ma anche quelle rappresentate da alcune rilevanti componenti sociali che hanno perso progressivamente centralità all’interno dei processi decisionali e di sviluppo nel paese. Più che la recessione, a tener ampio tale divario è il fatto che negli ultimi decenni si è favorito chi aveva vecchie posizioni da difendere rispetto a chi ne aveva nuove da raggiungere; chi godeva di benessere accumulato in passato invece di chi poteva produrre nuovo benessere; i detentori dei  privilegi dell’oggi anziché i cercatori di opportunità di domani. E quando il futuro diventa periferico sono immancabilmente le nuove generazioni a perderci.

Al tema del futuro è dedicato il Festival del Diritto che si tiene in questi giorni a Piacenza, con un programma che ruota attorno all’irrisolta domanda “Quale significato riveste il ‘futuro’ per il diritto?”. Una questione che richiama le parole dette da Gustavo Zagrebelsky  in seminario organizzato dalla Corte costituzionale nell’ambito delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia: “il diritto ha il dovere di pensare al futuro”. A dimostrazione delle conseguenze nefaste a cui si può andare incontro venivano in quell’intervento rievocate le vicende dell’Isola di Pasqua: “grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro, per gigantismo e imprevidenza”. Come fare allora in modo che le classi dirigenti e i cittadini di oggi non facciano scelte miopi, a danno di chi verrà dopo? Ribilanciando i diritti delle generazioni future con i doveri di quelle presenti. “Dobbiamo riconoscere”, concludeva amaramente Zagrebelsky, “che questo mutamento di paradigma vede il costituzionalismo completamente impreparato, anzi ostile”.

Tale ostilità, pervasivamente presente nella società italiana, ci ha portati a diventare il paese nel mondo avanzato con il peggior squilibrio tra alto debito e basso investimento pubblico verso le nuove generazioni. Con riforme previdenziali realizzate cercando di non mettere in discussione i diritti del passato a scapito dell’equità generazionale.

L’esito di questi squilibri è allo stesso tempo causa e conseguenza del fatto che i giovani italiani si sentono più figli che pieni cittadini: costretti a chiedere come favore ai genitori quello che in altri paesi i coetanei ottengono come diritto. Nelle voci che riguardano la casa, il lavoro, il sostegno al reddito, la protezione contro l’esclusione sociale, noi destiniamo quote molto basse della spesa sociale mentre molto più rilevante che altrove è il ricorso all’aiuto dei genitori. In direzione opposta alla correzione di questa miopia va la riduzione del peso elettorale dei giovani rispetto a quello delle generazioni più mature. Non basta, infatti, portare qualche giovane al Governo se poi per mantenere il consenso contano due volte di più gli over 65 rispetto agli under 30.

Ma, al di là di tutto, il problema vero è il fatto che in un mondo che cambia noi siamo rimasti fermi trasformandoci sempre di più un paese, complice un diritto di comodo, più propenso ad assecondare le pretese del presente che a incoraggiare le attese del futuro.

 

 

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