Il successo di Expo e i limiti degli economisti

Le nuove generazioni sono attratte da un mondo nel quale le cose accadono e sono incentivate a dare il meglio nei contesti che si pongono sfide elevate. Soprattutto di fronte a loro l’Italia ha l’obbligo di dimostrare di poter stare al passo con il resto del mondo.

Il successo di Expo possiamo paragonarlo alla conquista italiana del K2 nel 1954. Anche quella fu un’impresa attorno alla quale si sollevarono perplessità e polemiche. L’Italia viveva un difficile contesto economico con ampie fasce della popolazione in condizione di povertà e flussi crescenti di emigrazione verso l’estero. Molti si chiesero se davvero valeva la pena investire risorse ed energie in una operazione simile. L’organizzazione e la realizzazione della spedizione furono poi caratterizzate da personalismi, conflitti, scelte discutibili, persino verità nascoste. Eppure rappresentò una grande iniezione di fiducia per un paese che voleva dimostrare prima di tutto a se stesso, dopo sconfitte ed umiliazioni, di essere in grado di compiere grandi imprese. Fu anche un’operazione di immagine verso il resto del mondo, volta ad indicare che l’Italia quando si pone degli obiettivi ambiziosi ha tutti i numeri per realizzarli.

Quell’evento si collocò temporalmente e metaforicamente tra la fine della fase di ricostruzione e l’inizio del processo di crescita che porterà al boom economico. Oggi, per molti versi, siamo in una condizione simile. Veniamo da un prolungato periodo di depressione economica e sociale. Negli ultimi anni è cresciuto il senso di rassegnazione, si è consolidata l’idea di un’Italia in irreversibile declino produttivo e culturale, con posizione sempre più marginale in Europa e nel mondo. Questo clima negativo ha pesato fortemente soprattutto sulle nuove generazioni, cresciute con una narrazione pubblica che le ritraeva, già prima della crisi, come le prime dal dopoguerra a sperimentare condizioni e opportunità peggiori rispetto ai propri genitori. Soprattutto di fronte a loro l’Italia ha l’obbligo di dimostrare di poter stare al passo con il resto del mondo. Per i giovani italiani – quelli dai 15 ai 24 anni con tasso di disoccupazione al 40 percento – la riuscita dell’Esposizione universale di Milano ha lo stesso valore della conquista del K2 per i ragazzi degli anni Cinquanta. Questo gli economisti, nelle loro fredde operazioni di bilancio tra entrate e uscite, prima ancora di capire come misurarlo non sanno nemmeno cosa significa. Un esempio paradigmatico, da conservare come testimonianza per il futuro, è l’ebook dal titolo perentorio “Perché l’Expo è un grande errore”, steso a maggio 2014 dall’economista Roberto Perotti per la voce.info. Un documento che si apre affermando che l’evento è “nato e cresciuto per una amnesia collettiva della razionalità umana” e si chiude con il ragionevole timore che il sogno collettivo, dopo la sbornia collettiva, si possa rivelare un incubo. Oggi, anche i più rigidi economisti fanno fatica a liquidare l’Expo come un “grande” fallimento e indirizzano semmai gli sforzi a dimostrare che il successo è “piccolo”. Ma possiamo dire oggi che sarebbe stato meglio non cogliere la sfida di misurarsi con tale evento? O la risposta è semplicemente “ben altro si sarebbe potuto fare”?

Le nuove generazioni sono attratte da un mondo nel quale le cose accadono e sono incentivate a dare il meglio nei contesti che si pongono sfide elevate. Se l’Italia vuole trasformarsi in un paese rinunciatario perché teme di non essere all’altezza, si troverà a pagare nel tempo costi enormemente più alti di quelli su cui oggi si concentrano le critiche dei freddi contabili.

 

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