La meritocrazia è solo retorica senza pari opportunità

“Serve più meritocrazia” è una affermazione che si trova spesso nel dibattito pubblico italiano. Il termine “meritocrazia” è però controverso e sovente utilizzato in modo ambiguo, prestandosi facilmente a fraintendimenti e quindi a polemiche fumose. Viene, infatti, spesso impiegato rimandando a concetti diversi dai vari interlocutori, in funzione della tesi che si vuole sostenere.

“Serve più meritocrazia” è una affermazione che si trova spesso nel dibattito pubblico italiano. Il termine “meritocrazia” è però controverso e sovente utilizzato in modo ambiguo, prestandosi facilmente a fraintendimenti e quindi a polemiche fumose. Viene, infatti, spesso impiegato rimandando a concetti diversi dai vari interlocutori, in funzione della tesi che si vuole sostenere.

Uno spunto interessante su questo dibattito viene da un recente video pubblicato nel sito del giornale inglese “The Guardian” in cui Matthew Taylor, amministratore delegato della “Royal society for the encouragement of arts, manufactures and commerce” e già consigliere di Blair, attacca frontalmente la retorica del merito. Lo fa mettendo in contrapposizione meritocrazia e egalitarismo. La sua tesi, sostenuta in modo piuttosto confuso, è che la mobilità sociale è crudele in una società iniqua. Si può semplicemente rispondere a Taylor che la crudeltà e il non rispetto della dignità umana stanno nelle disuguaglianze in sé. E si può aggiungere che nel concetto di meritocrazia non si può non considerare come parte integrante e cruciale l’uguaglianza delle opportunità. Possiamo anche rottamare il termine, oggettivamente brutto e inflazionato, ma non possiamo rinunciare all’idea che ciascuno possieda specifici talenti e che la società debba incentivare e promuovere chi si impegna a svilupparli, raffinarli e metterli a frutto. Questo va fatto con ancora più attenzione e sostegno pubblico verso chi parte da contesti svantaggiati. E’ la mobilità sociale di questi ultimi che prima di tutto dovremmo promuove fattivamente. La riduzione delle diseguaglianze non si ottiene certo facendo rallentare chi sta più avanti ma aiutando ad avanzare meglio e di più chi parte più arretrato.

Il successo delle politiche pubbliche va misurato proprio sulla capacità di incentivare tutti a muoversi nella giusta direzione senza lasciare indietro nessuno. Le misure più efficienti sono, in particolare, quelle che consentono, a parità di costo, di far ottenere alle persone il maggior incremento relativo. E questo può essere fatto prima di tutto rimuovendo gli ostacoli di chi parte da più indietro ma ha le potenzialità per arrivare più avanti. E’ questo il miglior investimento sociale possibile perché produce il maggior contributo alla crescita riducendo nel contempo le disparità di partenza. Se l’Italia non cresce e vede le diseguaglianze aumentare è proprio perché questo tipo di mobilità sociale noi lo incentiviamo e sosteniamo di meno. I dati Ocse ci dicono che siamo uno dei paesi in cui il reddito dei figli è più correlato a quello dei padri e, inoltre, uno di quelli in cui la spesa sociale è più inefficiente nel ridurre il rischio di povertà. Di fatto facciamo solo assistenzialismo e poca azione di vero riscatto sociale.

In Italia chi è in alto riesce maggiormente a difendere le proprie posizioni per sé e per i propri figli, trovandosi spesso ad occupare posizioni che richiedono maggiori capacità di quelle che effettivamente possiede. Chi parte da più in basso, a parità di potenziale, più difficilmente riesce invece a salire e raggiungere le posizioni che meglio possono valorizzarlo. Se Milano è oggi considerata la città più dinamica d’Italia è perché nella strada da fare conta meno da dove si parte e più dove si vuole arrivare.

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