Le nuove generazioni: un capitale su cui investiamo troppo poco

C’è un dubbio che dobbiamo sciogliere una volta per tutte e poi non discuterne più ma solo agire con coerenza e determinazione: i giovani italiani valgono veramente?

C’è un dubbio che dobbiamo sciogliere una volta per tutte e poi non discuterne più ma solo agire con coerenza e determinazione: i giovani italiani valgono veramente? Le nuove generazioni allevate nel nostro paese sono portatrici di energie ed intelligenze utili per far crescere l’Italia e farla tornare competitiva nel mondo? Se crediamo di no, allora prendiamo atto che siamo senza futuro e attrezziamoci per rendere più dolce possibile il declino. Se invece la risposta è positiva, non basta dirlo a parole, dobbiamo anche realizzare azioni concrete per far sì che quelle energie ed intelligenze diano la migliore espressione di sé. Per farlo dobbiamo intervenire sia sulla componente culturale che su quella strutturale. Riguardo al primo aspetto è necessario consolidare, ad ogni livello sociale, la convinzione che questo paese crede nei propri giovani e li considera la risorsa più preziosa su cui investire per produrre sviluppo e benessere. Aiutare i giovani ad adottare l’approccio giusto avendo attorno a sé un clima di fiducia e di stimolo continuo alla buona formazione e all’intraprendenza è una precondizione. E’ come preparare bene il terreno rendendolo fertile, ma bisogna però poi seminare, coltivare e dimostrare di essere in grado di ottenere buoni frutti. Per far questo servono misure concrete che incidono sugli aspetti strutturali, con riforme mirate e con investimenti adeguati. E’ qui che la politica viene messa alla prova e deve dimostrare quanto crede davvero nel valore sociale e produttivo delle nuove generazioni.

Finora i risultati sono stati deludenti. Due dati su tutti lo testimoniano. Il primo è quello che impietosamente ci dice che, dopo la Grecia, siamo il paese con più alta quota di Neet, ovvero di under 30 fuori sia dal percorso formativo che lavorativo. Questo significa che siamo finora stati i più bravi a trasformare i giovani da potenziale risorsa per la crescita a costo sociale a carico di famiglie e collettività. Il secondo dato è che siamo tra i grandi paesi europei quello con maggior saldo negativo tra laureati che se ne vanno e quelli che attraiamo da altri paesi sviluppati. Questi due dati suggeriscono che stiamo andando verso la strada sbagliata: non solo non promuoviamo attivamente il ruolo delle nuove generazioni, ma li incentiviamo ad essere inattivi e a disperdere i propri talenti. E’ esattamente il contrario di quello che succede nei paesi che raggiungono le maggiori performance in termini di sviluppo e competitività, i quali riescono ad ottenere tali risultati proprio grazie al capitale umano delle nuove generazioni.

Se vogliamo spezzare la spirale negativa del “degiovanimento” italiano dobbiamo agire simultaneamente su due fronti. Il primo è quello di ricostruire progressivamente le condizioni che consentono a chi è ben formato e qualificato e ha voglia di fare, di ottenere i migliori frutti possibili nel territorio in cui vive. Il secondo è quello di rendere l’Italia un contesto sociale, produttivo e istituzionale attrattivo, in grado di riconquistare chi se ne è andato ma diventando invitante e interessante per qualsiasi giovane di qualità.  Sbaglia chi pensa che per incentivare i talenti a tornare dobbiamo prima risolvere tutti i nostri limiti e riportarci alla piena occupabilità giovanile. Come si illude chi pensa che basti qualche incentivo fiscale per rendere reversibile la scelta di andarsene. Molti giovani sarebbero disposti a tornare anche in condizioni più basse rispetto al paese in cui sono emigrati ma a condizione di vedere nel territorio di origine l’attivarsi di un processo credibile di cambiamento e miglioramento al quale possono partecipare da protagonisti. E’ necessario quindi dare segnali positivi e concreti sia di attenzione e incentivo a chi torna, sia sul fatto che si sta operando sulle condizioni di sistema per consentire che i migliori frutti possano essere colti da chi mette più qualità e impegno nella formazione e nel lavoro.

Due recentissimi interventi possono essere considerati segnali utili in questa direzione. Il primo riguarda alcuni aspetti interessanti contenuti nel testo di riforma della pubblica amministrazione. Ci riferiamo soprattutto all’eliminazione del voto minimo di laurea nei concorsi pubblici, un passo in avanti verso il superamento del valore legale del titolo di studio. Si sarà meglio giudicati in base a vari fattori concomitanti, dando più peso alle vere competenze dei candidati. Il secondo arriva dalla riforma del fisco e in particolare dal provvedimento che rafforza la cosiddetta legge “controesodo” e riconosce un regime favorevole, con sconto per cinque anni del 30% sull’imponibile, per i giovani con alte qualifiche che decidono di tornare in Italia. A questo possiamo aggiunge anche il programma “PhD ITalents” promosso da Confindustria e Crui (la Conferenza dei Rettori della Università Italiane) con fondi del Ministero dell’Istruzione e privati. A parte il titolo ambiguo, l’iniziativa è apprezzabile perché va a potenziare la spendibilità dei dottori di ricerca nelle aziende italiane.

Come dicevamo, segnali nella giusta direzione, ma che possono determinare vero cambiamento solo se intesi come parte di un processo più ampio di mutuo rafforzamento tra misure di riattrazione e azioni concrete di ampliamento strutturale di spazi e opportunità per un contributo davvero di qualità delle nuove generazioni allo sviluppo del proprio paese.

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