ALESSANDRO ROSINA, OSSERVATORIO GIOVANI: “IN ITALIA I NEET PIÙ NUMEROSI D’EUROPA. BISOGNA AIUTARLI A RIMETTERSI IN GIOCO”

I giovani italiani sono i più inoccupati d’Europa: oltre 3 milioni (di cui 1,7 milioni ragazze): i più numerosi fra tutti i 27 Paesi dell’Unione Europea. Dati che si sono aggravati con la pandemia: saliti dal 20,3% del 2008 al 27,4% del 2014, i Neet, Not in Education, Employment or Training, erano scesi al 23,8% nel 2019. Adesso, però, dopo due anni e mezzo di distanziamenti e lockdown, sono risaliti oltre la soglia psicologica del 25%: 1 ragazzo su 4, in Italia, è abbandonato a sé stesso.
Numeri tanto più inaccettabili se confrontati a realtà europee come la Germania, dove i Neet sfiorano a malapena il 10%. Ma anche, più in generale, alla media dei 27 Paesi dell’Unione Europea, dove i Neet si fermano alla soglia del 15%. Statistiche che rendono ancora più preoccupante il futuro italiano, se si aggiunge che siamo un Paese in pieno “degiovanimento”: gli under 35 negli ultimi dieci anni sono calati di oltre 1 milione, passando dagli 11,4 milioni del 2012 ai 10,3 di oggi. E siamo anche il primo Paese al mondo dove gli over 65 hanno superato gli under 15, con in prospettiva il sorpasso sugli under 35 entro il 2040.
Campus Magazine affronta l’argomento con uno dei maggiori studiosi del problema in Italia: Alessandro Rosina, docente di Demografia all’Università Cattolica e coordinatore dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo di Milano, che ha contribuito a fondare 10 anni fa. E che a più riprese, quest’anno con un’indagine a giugno e un saggio a novembre (L’Italia dei divari, edizioni Il Mulino 4/2022) ha analizzato l’ampia e crescente popolazione dei giovani che non studiano, non lavorano e non sono in tirocinio. Con lui cerchiamo di conoscere le ragioni di questa emergenza strutturale e capire quali soluzioni possono arginarla nel breve-medio termine.

Professore, l’indagine che lei ha realizzato dimostra che i Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, in Italia sono in sensibile crescita, come mai?
Per la fragilità di tutto il percorso di transizione dalla scuola al lavoro. Una parte di loro diventa Neet perché impegnata in percorsi formativi deboli, con carenze sia di competenze di base che di skills avanzate e tecniche. Ciò comporta una dispersione scolastica caratterizzata da tassi di abbandono sensibilmente più elevati della media europea. È un problema che nasce sia dall’incapacità del Paese di assicurare una formazione solida alle nuove generazioni, sia dal difficile incontro fra la domanda di lavoro delle aziende da una parte e, dall’altra, dall’offerta da parte dei laureati di competenze spesso superiori a quanto serve per i posti offerti. Alla radice c’è anche una carenza di politiche attive del lavoro, che nei Paesi Ue sono decisamente più efficaci. I Centri per l’impiego sono l’asse portante delle politiche attive, ma vantano una discreta copertura soltanto al nord, nel centro-sud e nel sud Italia sono carenti.
Come si può arginare questa grave dispersione giovanile?
Le iniziative da intraprendere sono più di una. Anzitutto va affrontata la carenza di operatori in grado di dialogare con efficacia coi giovani, che acuisce la fragilità del mercato del lavoro territoriale: serve formarne di più e meglio affinché siano in grado di accompagnare i giovani sia nelle fasi di orientamento che in quelle di ingresso al mondo dell’occupazione. Poi bisogna offrire percorsi personalizzati a chi è rimasto fuori dal circuito formazione-lavoro: oggi i giovani trovano posto soprattutto con canali informali, come genitori e parenti, con segnalazioni di conoscenti e col fai da te tra siti internet. Ciò dimostra che il sistema è inefficiente ed iniquo: chi ha una buona rete familiare trova facilmente lavoro, magari anche in ruoli più elevati rispetto alle proprie capacità; gli altri, invece, si trovano spesso abbandonati a sé stessi. In questo modo si perdono anche giovani di grande potenziale e rimangono disoccupati anche quelli con una buona formazione.
Anche il mismatch tra domanda e offerta di lavoro contribuisce al fenomeno Neet…
La deludente qualità di una parte rilevante della domanda di lavoro contribuisce parecchio. Molti giovani ben qualificati entrano nella condizione di Neet perché l’offerta del mercato dell’occupazione è di bassa qualità, con stipendi bassi e scarsa valorizzazione del capitale umano. Perciò i giovani prima di accettare un lavoro sfruttato si guardano bene attorno e spesso se ne vanno all’estero. Una delle ragioni è da ricercarsi nello scarso investimento italiano in ricerca, sviluppo e innovazione. Diversamente potremmo non solo ricoprire le esigenze dell’attuale mercato del lavoro ma addirittura espanderlo, incrementando i settori più dinamici e competitivi proprio grazie alle nuove idee dei giovani.
Quanto potenziale perdiamo dalla fuga dei cervelli italiani all’estero?
Tantissimo, ben più di quanto i dati Istat non dicano: si stima che circa la metà dei giovani che vanno all’estero, infatti, non formali il cambiamento di residenza: spesso si tratta di ragazzi che partono pensando di trasferirsi solo per brevi periodi, soggiorni che spesso si prolungano per le condizioni migliori che trovano rispetto all’Italia, sino a diventare implicite decisioni di restare all’estero. Così capita che solo quando devono votare, se lo desiderano, formalizzano il trasferimento di residenza.
Per rimediare ci sono “best practice” che possiamo importare dai Paesi più virtuosi?
La differenza tra noi e l’Europa risiede nell’investimento nelle politiche attive di sviluppo e nel dialogo scuola-lavoro, che all’estero è molto più affiatato. In centro Europa, specie in Paesi come Germania e Olanda, esiste un sistema duale che prevede un forte investimento anche sulla formazione terziaria non universitaria e che passa attraverso percorsi formativi tecnico-professionali avanzati. Da noi questo tipo di didattica professionalizzante post-diploma è concentrata soprattutto in Lombardia e Piemonte, dove la percentuale di giovani che trova lavoro dopo questi percorsi è molto elevata. Esperienze di questo tipo richiedono però una forte alleanza sul territorio tra gli stakeholder della formazione. Gli Its, per esempio, gli Istituti tecnici specialistici della formazione terziaria, hanno bisogno di essere costantemente aggiornati dalle imprese locali sulle competenze che servono nei loro campi per formare diplomati pronti ad entrare nel mondo lavorativo. Altra best practice che giunge dai Paesi Ue è la possibilità di entrare nel mondo del lavoro attraverso l’apprendistato retribuito, invece che con un susseguirsi di stage, spesso sfruttati, con cui i giovani sono impegnati da noi anche fino ai 30 anni. In Europa, invece, l’apprendistato di terzo livello in Europa viene retribuito già durante la scuola e consente di laurearsi o diplomarsi contemporaneamente al lavoro. Più in generale, retribuzione, contratti a tempo indeterminato, formazione continua sono i pilastri dei migliori sistemi europei che andrebbero assicurati anche in Italia per consentire ai giovani progetti professionali e di vita. Contemporaneamente, a livello sistemico, vanno rafforzati in modo permanente ricerca, sviluppo e innovazione.

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