(Estratto)
Anche Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e statistica sociale alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, considerare i super longevi un’opportunità: nelle società del passato la probabilità di un nuovo nato di arrivare a 65 anni era pari a un terzo, oggi è superiore al 90 per cento. «È necessario abbandonare l’atteggiamento difensivo rispetto ai cambiamenti demografici e imparare a gestirli. Dobbiamo mettere ogni generazione nelle condizioni di valorizzare tutte le fasi di una lunga vita attiva e favorire una collaborazione tra generazioni».
Perfetto, ma resta il problema di chi sosterrà economicamente questi centenari, e se la tradizionale classificazione studio-lavoro-pensione continuerà a esistere o dovranno cambiare anche le basi su cui poggia l’economia per come l’abbiamo sempre conosciuta. «Per lunga parte della storia dell’umanità società ed economia hanno funzionato poggiando su una larga base di giovani, con pochi anziani» spiega Rosina. «Del tutto nuova è, invece, l’impresa di garantire sviluppo e benessere in un mondo in cui i giovani diventano una risorsa scarsa a fronte di una continua crescita della terza età. L’Italia ha in comune con le altre economie mature la sfida di assicurare una buona qualità di vita nella vecchiaia con adeguate pensioni e possibilità di cura. Da questo dipende la capacità di un Paese di generare benessere e rendere sostenibile il sistema sociale, facendo funzionare il sistema di welfare» .
È su questo punto, secondo l’esperto, che l’Italia risulta più fragile, come conseguenza della persistente denatalità e con l’elevato debito pubblico che si ritrova. «Se non si contiene l’indebolimento della forza lavoro potenziale, il rischio che la spesa previdenziale diventi sempre meno sostenibile è elevato»