Il Paese dei Neet: nessuno in Europa ne conta più dell’Italia

04/12/2019
VITA MAGAZINE
Il Paese dei Neet: nessuno in Europa ne conta più dell’Italia VITA MAGAZINE

Come finirà Francesco che a venticinque anni sta tutto il giorno a casa a picchiettare sui tasti del computer alla ricerca di qualche lavoretto? I suoi genitori, preoccupati, non sanno cosa fare. Alle dieci di mattina, ancora in pigiama, inzuppa il biscotto nel latte come faceva da bambino. Eppure io mi ricordo che alle spiegazioni era attento, non saltava nemmeno una riga leggendo Jack London, prendeva persino gli appunti sul quaderno coi disegni dei samurai, non avevo mai l’impressione di perderlo, così carico d’energia vitale, pronto alla battuta, ironico, scaltro, senza titubanze». Per raccontare una delle tendenze più tristi degli ultimi anni ci affidiamo alle parole di chi i giovani li conosce bene perché li vive ogni giorno. Lo scrittore Eraldo Affinati, fondatore della scuola Penny Wirton, ne restituisce un’immagine inedita che ribalta quel luogo comune molto italiano de “sono tutti sfaticati” e mette al centro la persona.

«I giovani di oggi», continua Affinati, «i vostri figli vi stanno ponendo domande a cui voi non potete né sapete rispondere. Cose grosse: riguardano il senso del nostro stare al mondo, i valori che abbiamo deciso di perseguire. I dati generali accendono una luce rossa ma non rivelano granché in quanto ogni situazione è diversa».

Dove nascono i Neet
Il termine Neet è un’invenzione piuttosto recente. Acronimo di Not in Education, Employment or Training è stato utilizzato per la prima volta nel 1999 in un documento del governo britannico. Oggi si usa comunemente per indicare chi non è impegnato nello studio, né nel lavoro e neanche nella formazione. Partiamo quindi dal primo dato, sintetico e allarmante: nel 2018 in Italia, i Neet nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 29 anni sono pari a 2.116.000 e rappresentano il 23,4% del totale dei giovani della stessa età presenti sul territorio. Nel 47% dei casi i ragazzi hanno tra i 25 e i 29 anni, nel38% i ragazzi hanno tra i 20 e i 24anni e il restante 15% è nella forchetta 15-19 anni. L’Italia è la prima tra i Paesi europei per presenza di Neet, dove la media attuale è del 12,9%. Questi dati, elaborazioni Istat e Eurostat, sono stati raccolti nel report di Unicef “Il silenzio dei Neet – Giovani in Bilico tra rinuncia e desiderio” nata dal progetto Neet Equity selezionato dal Dipartimento per le Politiche Giovanili e il Servizio Civile Universale nell’ambito dell’Avviso “Prevenzione e contrasto al disagio giovanile”. «Essere Neet», dice Virginia di Meo coordinatrice del progetto Neet Equity, «è, prima di tutto, una condizione di disagio ed esclusione sociale, che priva i ragazzi e le ragazze di una possibilità di futuro, lasciandoli indietro. I giovani, invece, hanno le idee e le energie per creare un mondo migliore per sé stessi (e per tutti), se solo si dà loro l’opportunità di farlo. Spesso, infatti, la condizione di Neet è determinata da disuguaglianze che riducono le possibilità di rompere i meccanismi della povertà e dell’esclusione sociale; e da contesti — familiari, culturali, economici, sociali — che non investono adeguatamente sulle potenzialità dei ragazzi e sul loro futuro. Quindi, si tratta della riproposizione di uno stato sociale ereditato dalla famiglia di appartenenza e dal contesto sociale in cui si vive, ma anche di una sfiducia nelle istituzioni e nel mondo del lavoro nata da una certa comunicazione e narrazione della realtà che persino studiare non serva a niente. Il fenomeno altro non è che un elemento di disagio nel Paese. E il fatto che i ragazzi non abbiano occasioni per potersi mettere in gioco impoverisce il Paese stesso».

Un fenomeno made in Italy?
Già nei primi anni di studio del fenomeno, l’Italia presentava livelli più elevati della media europea, 18,8% nel 2007 contro 13,2% Ue-28. Il divario è poi aumentato durante gli anni della crisi fino al 2014 arrivando al 26,2% per poi cominciare a diminuire, 25,7% nel 2015, 24,3% nel 2016, 24,1% nel 2017. Stando ai dati Istat 2018, le regioni nelle quali si registra una maggiore presenza di Neet sono: Sicilia (con un’incidenza del 38,6%), Calabria (incidenza del 36,2%), Campania (incidenza del 35,9%), Puglia (incidenza 30,5%) e Sardegna (incidenza 27,5%). «Ma», continua Annarita Sacchi che ha redatto e curato la ricerca di Unicef, «quello dei Neet è un fenomeno complesso che lega e mette in relazione le falle della società. Anche la parola disimpegnati non deve subito farci pensare a persone che nella vita “non fanno niente” altrimenti si rischia di essere riduttivi e si etichettano i ragazzi».

«Dai dati», continua Sacco, «emerge anche che la condizione di Neet si divide quasi equamente tra donne (52%) e uomini (48%). E per quanto riguarda il grado di istruzione, Il 49% dei giovani ha conseguito il diploma di scuola secondaria superiore, il 40% è costituito da soggetti con livelli di istruzione più bassi, mentre il restante 11% corrisponde a quello dei laureati».

«L’Italia», interviene Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale, all’Università Cattolica di Milano, coordinatore del “Rapporto giovani”, Istituto Toniolo e autore del libro Neet Giovani che non studiano e non lavorano (Vita e Pensiero, 2015), «ha il triste record di Neet in Europa. E i motivi sono vari. Il primo ri- guarda il fatto che nel nostro Paese abbiamo più giovani con formazione debole, quindi meno attrezzati con competenze utili per la vita e il mondo del lavoro nel XXI secolo. Presentiamo infatti un tasso di dispersione scolasti- ca tra i più elevati in Europa e una percentuale di giovani che arrivano a laurearsi tra le più basse. Il dato sugli abbandoni precoci è di 5 punti superiore alla media europea: 17% contro 12% dell’Ue-28».

 

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