Il virus ha travolto il lavoro dei giovani. Come ripartire dopo la pandemia?

23/06/2020
Il virus ha travolto il lavoro dei giovani. Come ripartire dopo la pandemia? 24+ Sole 24 Ore

A inizio gennaio, Giuseppe Conte aveva qualche motivo di essere ottimista su un’occupazione «trainata dalla crescita di occupati fra giovani e donne». La direzione «è quella giusta», aveva commentato il premier su Twitter, citando i «dati incoraggianti» di novembre. Forse lo era, ma poco più di un mese dopo è arrivato il Covid-19. Una crisi che ha colpito soprattutto le fasce più vulnerabili del mercato del lavoro, a partire dalle nuove generazioni che si erano candidate a invertire la rotta.

I dati Istat su occupati e disoccupati mensili sul mese di aprile, il primo a contabilizzare l’impatto della pandemia, offrono uno scorcio sul disastro che incombe per giovani e giovanissimi. L’effetto ottico di un calo della disoccupazione nelle fascia 15-24 e 25-34 anni si spiega con il travaso di giovani in una dimensione più grave dell’assenza di impiego, l’inattività: le persone che né hanno né cercano un’occupazione sono cresciute tra 2019 e 2020 di 327mila unità nella fascia 15-24 anni e di 393mila in quella 25-34 anni .

Il peggio deve ancora venire, se si considera che l’Istat stima una contrazione del 9,3% della forza lavoro nel solo 2020. Di sicuro la pandemia lascerà diverse macerie, in un mercato che non è mai stato accogliente per le nuove generazioni. Ma da cosa e da dove si può ripartire per rimettere in moto l’occupazione dei più giovani? Lo abbiamo chiesto alcuni esperti.

La cassa integrazione? Sia vincolata alla formazione

«Sono dati allarmanti per le fasce più deboli, ai margini, e lo diventeranno ancora di più. Non si era visto un calo degli occupati così forte neppure durante le crisi». Andrea Garnero, economista Ocse, è spaventato dai primi numeri sul mercato del lavoro.

Lo è ancora di più dello scenario che si intravvede per il futuro, quando si saranno esauriti i palliativi di cassa integrazione e divieto di licenziamento. L’unico spiraglio è “approfittare” del disastro per sbloccare vecchi schemi. «Diventi l’occasione per ripensare il modo di lavorare, bisogna diventare più produttivi – dice- E come? Prima di tutto serve fare formazione a lavoratori e datori di lavoro, investendo su pratiche manageriali più performanti».

Una delle soluzione prospettate è un uso «virtuoso» della cassa integrazione: «Bisognerebbe condizionare l’estensione della cassa integrazione a formazione e riqualificazione -. dice – È difficile fare formazione di qualità ma è essenziale per non sprecare questi mesi e trovarsi con lavoratori che usciranno da uno o due anni di cassa demotivati, più vecchio e privo di legami con il mercato del lavoro».

Sul fronte giovanile la questione è anche più delicata, perché si aggiunge alla debolezza contrattuale dei lavoratori under 30 e , in alcuni casi, ai mesi di formazione scolastica “bruciati” con il lockdown. «Trasformiamo la cassa integrazione in incentivi alle assunzioni, sia attraverso riassunzioni che con l’inserimento di nuove figure. Andrebbe trasformato da strumento di protezione a strumento di ripartenza».

Quanto alle prospettive, Garnero appartiene «alla schiera dei non-ottimisti – dice – Non so se sarà uno spartiacque o continueremo a perpetrare gli stessi errori, di sicuro la crisi ha messo in evidenza alcune faglie di rotture nel mercato del lavoro che già esistevano. Vediamo tra i più colpiti donne, giovani, autonomi». Secondo Garnero, bisogna passare dalla «logica dei convegni» a una politica che svecchi davvero lavoro e attività produttiva.

«Serve un patto tra imprese, sindacati e politiche: alle imprese, in particolare, serve un patto di riqualificazione nelle pratiche manageriali; i sindacati chiedano il diritto alla riqualificazione e la politica faccia passi avanti. Dobbiamo arrivare a un sistema che prenda in carico chi cerca lavoro, lo ascolta, lo mette in relazione». Un programma un po’ vasto, forse. «Ma d’altronde è il momento di averne. Se vivacchiamo rischiamo di trovarci daccapo, ma con 5 punti Pil in meno e due anni persi».

«Le imprese cambino, serve più lavoro qualificato»

Lara Maestripieri, ricercatrice del Politecnico di Milano, pensa che l’emergenza Covid-19 abbia solo messo a nudo un deficit precedente: le imprese italiane tendono a offrire pochi impieghi ad alto tasso di qualifiche, gli unici a restare a galla nel disastro economico del Covid-19 grazie alla capacità di reinventarsi con smart working e digitale.

Ma anche gli unici adatti ad assorbire un esercito di neoprofessionisti che godono di qualifiche superiori rispetto alle generazioni precedenti, salvo trovarsi svalutati in un sistema ecomico ch e offre prospettive di carriera e retribuzioni avvilenti rispetto alla media internazionale. In questo senso, la crisi del coronavirus può essere il pretesto per un cambio di passo: «finora il problema dei giovani è stato vissuto come un problema di offerta: mancata attivazione dei giovani, mismatch tra titolo di studio e domanda di lavoro, con accuse alle scelte dei giovani, e via dicendo – dice -Invece bisognerebbe affrontare la questione della domanda di lavoro: come creare più domanda di lavoro high-skilled? come favorire la generazione di nuove imprese che diventino motore di occupazione qualificata che quindi sfugge alle conseguenze del lockdown?».

Già, come? La domanda non è semplice, in un sistema economico dominato da imprese microscopiche e senza spinta innovativa. Maestripiri vede due sbocchi. Da un lato, «ripensare le politiche industriali favorendo settori ad alto contenuto di tecnologia, sostenere il comparto dei servizi alle imprese attirando anche imprese dall’estero con una legislazione favorevole e quindi favorire l’occupazione ad elevato contenuto di conoscenza».

Dall’altro bisogna attirare lavoro qualificato,bilanciando i flussi di talenti esportati all’estero: «Dovremmo anche essere capaci di attirare professionalità freelance high-skilled anche dall’estero, creando poli di attrazione del lavoro qualificato nelle nostre città – spiega – per esempio semplificando le procedure per il lavoro autonomo qualificato e la generazione di start-up (il caso di Barcellona è emblematico!)». L’occupazione, però, non è formata solo dai professionisti più titolati. Maestripieri sa che la crisi del Covid-19 ha spiazzato anche fasce più vulnerabili della forza lavoro, magari confinate nei settori «inessenziali» nei mesi di lockdown.

In quest’ottica, bonus e assegni mensili sono solo un tampone rispetto a uno strumento di rilancio effettivo: la formazione. «Misure come il reddito di cittadinanza e di emergenza sono misure fondamentali per combattere la povertà e le conseguenze sociali più negative di questa crisi – spiega – ma dovrebbero anche essere usate come un’opportunità di aumentare le skills di questi lavoratori più fragili mettendo finalmente a regime la parte di attivazione connessa a questa misura (parlo del RdC) che ad oggi è rimasta soprattutto sulla carta».

«Rendere i giovani protagonisti dell’economia post-Covid»

Alessandro Rosina, ordinario di Demografia alla Cattolica di Milano, fa notare che l’Italia si è affacciata sulla crisi sanitaria con una lunga serie di presupposti. Sbagliati: un tasso oltre la media di under 30 che non studiano né lavorano (Neet), una popolazione sempre più anziana e una frattura evidente fra generazioni, con il rischio di dispersione di quelle più giovani. Il terremoto del Covid-19 può aggravare ancora di più la crisi, accentuando disagi pregressi nel mondo del lavoro italiano: «Il primo è quello della formazione – dice – C’è un alto rischio di veder depotenziato il capitale umano delle nuove generazioni sia per aumento della dispersione scolastica sia per una riduzione delle iscrizioni all’università, soprattutto per chi appartiene a contesti sociali più deboli. Il secondo è quello delle difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro, anche per l’inadeguatezza dei servizi delle politiche attive».

Il terzo, prosegue Rosina, «è il rischio di ulteriore scadimento verso forme ai margini e poco tutelate di impiego (si pensi alla gig economy). Il quarto rischio è quello che molte aziende riducano gli investimenti in formazione. Su tutti questi aspetti serve un piano di azione che attutisca l’impatto della crisi e accompagni verso nuove opportunità associate a un progetto di rilancio economico su basi solide». I contraccolpi della pandemia possono, comunque, trasformarsi in un’opportunità di rilancio. Rosina vede margini di crescita per le imprese con una vocazione più innovativa, sbloccando i vecchi modelli produttivi e aprendo prospettive per le nuove generazioni.

In fondo giovani sono più versati a una riqualificazione in chiave tecnologica e digitale. Si tratta “solo” di valorizzarli: «Questo significa considerare i giovani come la forza lavoro che meglio può dotarsi, attraverso formazione di qualità e riqualificazione mirata, delle competenze necessarie nel mondo post Covid – dice -In particolare chi esce dal sistema formativo dopo il lockdown rappresenta la generazione che segnerà il solco su cui costruire il nuovo modello sociale ed economico». D’altronde, siamo di fronte più a un aut aut che a una opzione: «I giovani potranno essere i protagonisti di un paese che cambia con loro, o al contrario quelli che porteranno i segni più profondi di una crisi che sposta l’Italia definitivamente ai margini del mondo che cresce.»

«Formazione e mercato duale, non si può rimandare ancora»

Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt, è convinto che in pochi si siano resi conto dell’impatto del Covid-19 sull’occupazione italiana. «Servirebbe una mappatura e la piena consapevolezza di quello chesta succedendo adesso – dice – La crisi economica non equivale alla crisi epidemiologica: sono due cose diverse. La crisi economica è una crisi molto particolare,e forse non ci siamo resi conto di avere 8 milioni di persone i cassa integrazione».

Seghezzi guarda con sospetto all’approccio “attendista” del governo, con il rinvio di un intervento più chiaro sulle politiche del lavoro. Anche nel suo caso, la soluzione prospettata è quella di una somma di formazione e investimenti: «La sfida sia quella degli investimenti su due fronti: su un versante la formazione dei dipendenti in cassa integrazione e forme di sussidio, perché non si possono congelare le competenze delle persone – dice – Dall’altro NA politica industriale che si focalizzi su qualche settore specifico che vogliamo individuare. Non è una scelta semplice, ma un approccio solo assistenziale non è possibile».

Fuori dall’Italia, ci sarebbero già dei modelli da seguire. Seghezzi ne indica soprattutto uno, i sistemi duali di formazione e lavoro alla tedesca: «Io credo che non possiamo ignorare che i paesi con il più alto tasso di occupazione giovanile sono le economie con sistemi duali sviluppati – fa notare – Se imprese sindacati e scuole scommettessero su questo , capirebbero che funzionano meglio degli sgravi bisogna investire su forme di apprendistato oggi poco sviluppate e svalutate». Sono forme, continua Seghezzi, «che hanno costi sostenibili e una modalità intelligente per formare le persone. Pensiamo anche al caso degli Istituti tecnici superiore».

Seghezzi non pensa che le imprese di dimensione piccola siano, per loro natura, incompatibili con un meccanismo virtuoso di alternanza. Ma devono essere guidate:« A volte in imprese di piccola dimensione gli apprendisti possono anche essere più seguiti della media – dice – Serve un sostegno più burocratico che metodologico».