L’inverno demografico finirà se ci adegueremo alle norme UE per il lavoro di giovani e donne

06/01/2022
L’inverno demografico finirà se ci adegueremo alle norme UE per il lavoro di giovani e donne LA STAMPA

Papa Bergoglio è tornato a sottolineare l’inverno demografico italiano. Cani e gatti, per l’egoismo di molti, avrebbero occupato in molte famiglie il posto dei figli. Ma l’egoismo non è l’unica spiegazione delle culle vuote per Alessandro Rosina, ordinario di Demografia alla Cattolica di Milano che nel libro “Crisi demografica, politiche per un Paese che ha smesso di crescere” propone soluzioni concrete per invertire il declino.

Cani e gatti hanno soppianta[1]to il desiderio di un figlio?

«Il numero desiderato di figli è in linea con gli atri Paesi ma in Italia si ha un terzo in meno dei figli che si vorrebbero avere. I giovani rimandano per la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia, soprattutto dal lato femminile, per la difficoltà di avere un percorso lavorativo non discontinuo e si ritrovano a 40 anni a vedere che le prospettive ormai non hanno con[1]sentito la realizzazione di paternità e maternità, e magari compensano con un cane e un gatto. Ma questo fa capire in ogni caso la voglia di avere qualcuno di cui occuparsi».

Quando è cominciata la crisi demografica in Italia?

«C’è stato un crollo molto consistente tra la metà degli Anni 70 e la metà degli 80. Siamo scesi sotto il fatidico numero che rappresenta l’equilibrio tra generazioni, la media di due figli per donna, 1’1.5. Le scelte di lavoro e di vita non sono andate insieme come è accaduto in altri Paesi, le coppie hanno dovuto posticipare le scelte, rinviando la nascita di un figlio. Questo ha prodotto squilibri, l’aumento della popolazione anziana e la diminuzione di quella giovanile che dovrebbe subentrare e soste[1]nere il welfare. L’Italia è il Paese che si trova da più lungo tempo sotto la media di 1,5 figli per donna. E adesso siamo ancora scesi: a 1,24».

È per egoismo che non facciamo figli?

«Non possiamo dire che gli italiani siano più egoisti dei francesi, dei tedeschi o dei finlandesi. E’ che nel nostro Paese mancano le condizioni per favorire una scelta. La Germania nel primo decennio del 2000 era nelle nostre stesse condizioni ma è riuscita a invertire la tendenza perché ha fatto politiche più solide e robuste di noi a sostegno delle famiglie».

E una crisi irreversibile?

«Se non ci sono condizioni adeguate, percorsi che aiutino i giovani a rendersi autonomi rispetto alle famiglie di origine, politiche per conciliare lavoro e famiglia, servizi sociali adeguati, anche i desideri che ci sono si indeboliscono e il rischio è quello che le difficoltà si trasformino in una visione al ribasso del desiderio di diventare genitori. Inoltre, come conseguenza della denatalità passata si stanno riducendo le coppie in potenziale età riproduttiva, quindi le potenziali madri. Nel 2021 le donne di 35 anni erano 334mila,100mila in meno delle donne di 45 anni ma 50mila in più delle ragazze di 25 anni».

C’è ancora tempo?

«Siamo nell’ultimo momento possibile per intervenire. Il rimbalzo che ci può essere dall’uscita dalla pandemia con il recupero dei progetti che l’emergenza ha portato a sospendere, la ripresa della natalità come uscita dalla depressione potrebbe esserci solo se unita a politiche familiari all’altezza»,

Cosa dovremmo fare?

«Occuparci dei percorsi dei giovani per l’autonomia, facilitando le politiche abitative, il lavoro, i servizi per l’infanzia e il congedo di paternità, fonda[1]mentale per un cambiamento culturale. Dobbiamo ispirarci al meglio che si è fatto in altri Paesi, avendo a disposizione un Pnrr che apra prospettive nei confronti del futuro. L’Italia destina meno spesa sociale sulle politiche familiari, nel 2018 appena l’1,1 del Pil contro una media europea del 2,4 e il 3,3% tedesco».

Chi ha tre bambini ha il triplo di possibilità di scivolare nel[1]la povertà assoluta. Basta l’assegno unico?

«L’assegno unico va nella direzione giusta. Parte alla nascita a va avanti fino a 21 anni. Lo strumento in sé è giusto ed è quello che serve. Deve essere potenziato, l’auspicio è che sia un punto di partenza, perché per portaci alle migliori esperienze europee non possiamo pensare che i servizi per l’infanzia possano fermarsi al 33%: devono arrivare almeno al 50, come in Francia e Svezia».