Perché l’Italia si è dimenticata dei bambini e del suo futuro

17/03/2021
LINKIESTA
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Durante il primo lockdown, quello di marzo 2020, se li sono dimenticati. Addirittura, sono stati considerati soltanto come un mezzo per genitori furbetti, pronti a usare i figli per uscire di casa. Quando si è parlato di scuole, il dibattito si è arenato sui banchi a rotelle, sulla didattica a distanza, sull’alternanza chiusura/apertura (altro che scuola-lavoro). Discussioni irritate, qualche sparata, numeri a caso e la questione finiva lì.

Si sa il motivo: da decenni a questa parte non sono un argomento interessante. In Italia di bambini non si parla volentieri, e quando lo si fa ci si limita a riproporre visioni stereotipate, lontane dalla realtà, inutili quando ci sono problemi da risolvere. L’infanzia è una grande rimozione. Il numero dei nati è in calo costante da decenni e nel 2020 si è toccato il minimo record dai tempi dell’Unità d’Italia. Per questo la domanda nel titolo dell’ultimo libro di Annalisa Cuzzocrea, “Che fine hanno fatto i bambini?” è centrale. Un’inchiesta di 160 pagine che prende in mano il problema con l’aiuto di esperti, psicologi, demografi, scrittori e studiosi. Il quadro, a più voci, racconta le ragioni di un Paese che ha scelto di dimenticare i bambini, con ricadute sulla famiglia, sul concetto di genitori, sulla società stessa.

Il dettaglio iniziale è importante: durante il lockdown «le istituzioni li hanno chiusi in casa e, di fatto, dimenticati». Non sono state concesse occasioni per salutare i compagni o gli insegnanti, nessuno ha pensato agli esami delle elementari o delle medie.

Come racconta Bruna Mazzoncini, «in generale, l’unica attenzione è stata rivolta ai liceali perché si avvicinano all’età adulta, devono andare all’università». Gli altri no, perché «i bambini non devono avere pensieri e, comunque, di loro si occupano mamma e papà».

I figli sono diventati una questione privata, riguarda le famiglie (ormai sinonimo di genitori) e solo loro. Fuori non c’è spazio per i più piccoli: niente parchi, pochi musei (a differenza di Paesi Bassi e Regno Unito, per esempio) al massimo “divertifici” con giochi gonfiabili. All’estero «tutti gli spazi sono pensati concependo la loro esistenza. In Italia no».

Tolti alla società, sono finiti in carico ai genitori. Mai come oggi, spiega lo psicoterapeuta Matteo Lancini (un’altra delle voci messe in fila da Cuzzocrea) i figli «sono stati così al centro dell’attenzione della loro famiglia. Mai così programmati, voluti, cercati, con una madre magari lontana col corpo ma molto presente».

Scomparsa quella che veniva definita «la comunità educante», in cui i figli degli altri erano figli di tutti, tutto spetta a padri e madri, che «puntano tutto sulla riuscita dei figli e cercano di rimuovere ogni ostacolo, evitare ogni sofferenza, dimostrare di essere il migliore genitore del secolo». Come dice lo scrittore Giacomo Papi, «la nostra è la prima generazione di genitori che vivono questo ruolo come performance».

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l’attaccamento prolungato, l’ipercontrollo, la sorveglianza continua (un ultimo esempio è il registro elettronico, sorta di Grande Fratello dello scolaro che annulla la distanza tra scuola e casa), ma anche – aggiunge la psicanalista Silvia Vegetti Finzi – la nascita della figura della mamma acrobata (o meglio, della sua mitologia) con «la smania di essere tutto, di poter preparare una riunione mentre si impastano i cupcake, di andare in ufficio ogni giorno senza rinunciare a fare da scrutatore per il voto dei rappresentanti di classe, di correre con i birilli in mano senza fermarsi pur di illudersi di avere ogni situazione sotto controllo», che si traduce come «una forma di difesa della privacy, non solo un bisogno. È come se dicessimo: “Sui miei figli decido io”.».

A questo seguono le rivalità: madri lavoratrici contro madri non lavoratrici, o lavoratrici ma non madri. E madri contro padri. Così un fatto naturale è diventato un fenomeno eccezionale (colpa della bassissima natalità, certo. Ma forse anche causa?) che finisce per investire i genitori di una missione.

Con la modernità, spiega il demografo Alessandro Rosina, «il processo decisionale non opera più per sottrazione, ma in aggiunta rispetto a una condizione di base che è quella di assenza di figli». Prima ci si sposava e i figli, in un certo senso, arrivavano da soli. Ora si tratta di una scelta che «ha bisogno di essere innescata in modo deliberato e consapevole».

Cioè «serve che le sia attribuito un valore, che si creino condizioni oggettive che la favoriscono, che non si contrapponga alla realizzazione personale e professionale», tante condizioni che devono andare a incastrarsi, in un Paese che non guarda più al futuro con fiducia.

Fare figli porta con sé un carico di ansia, di paura, di inadeguatezza che porta a una situazione schizofrenica: si pensa solo a loro ma non si comunica più.

Come spiega Nadia Terranova, «la sparizione dell’infanzia ci rimanda a qualcosa di metaforico, di più grande». È una rimozione: molti preferiscono non ricordare quel che provavano o pensavano da bambini, «come se l’unico modo di crescere fosse una cesura e non, invece, la capacità di tenere insieme tutto. Parte da qui – sospettiamo entrambe – la scarsa propensione a guardare i più piccoli per quello che sono davvero. Sigillandoli nello stereotipo, costringendoli in una dimensione in cui è l’adulto a stabilire cosa hanno il diritto di dire, provare, pensare. Tutto quello che scarta, ci spaventa. Tutto quello che spaventa, lo allontaniamo».

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