Poveri gamberi

15/07/2021
Poveri gamberi ECO DI BERGAMO

Il passo del gambero dell’Italia dice che la denatalità, dopo aver eroso la fascia più bassa, sta intaccando pesantemente anche le età centrali lavorative: ecco una delle principali conseguenze economiche e sociali degli squilibri demografici. Parte da qui l’analisi di un autorevole esperto, Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano.

Cosa sta succedendo?

“Le economie mature ormai guardano con attenzione al “tasso di dipendenza degli anziani”, ossia al rapporto tra le fasce oltre i 65 anni e la popolazione in età attiva, dai 15 ai 64 anni. Questa misura indica quanto è sostenibile l’invecchiamento della popolazione sulla capacità di produrre ricchezza. Nel 2019 il valore europeo era al 31% mentre il dato italiano del tasso di dipendenza degli anziani è il più alto dell’Ue, a quota 35%. Fra 30 anni rischiamo di avere un rapporto 1-1 tra lavoratori effettivi e pensionati. Questa regressione è il risultato di due relazioni asimmetriche: gli anziani aumentano e aumenteranno sempre di più e nel mentre i giovani-adulti che stanno entrando nella vita attiva hanno numeri sempre più ridotti per effetto della denatalità passata. Il confronto con la Francia è chiaro: a parità di numero di anziani, abbiamo meno persone in età di lavoro. Italia e Spagna condividono un tasso di natalità basso (1,24 figli), molto al di sotto di quota 2, il livello che consente l‘equilibrio fra generazioni a cui si avvicinano Francia, Svezia, Gran Bretagna”.

Lei insiste su un punto: occorre sbrigarsi per rimediare a questo deficit.

“Più si attende e più diventa difficile riequilibrare il rapporto tra forze che alimentano i processi di sviluppo, da cui derivano ricchezza e benessere da redistribuire, e popolazione inattiva. Abbiamo bisogno di misure incisive e tempestive, sapendo che i benefici si vedranno dopo un lungo periodo. Se l’Italia fin qui ha avuto un percorso non virtuoso, dopo l’impatto della pandemia dovrà dimostrare di saper far meglio degli altri. Se non altro perché siamo quelli che hanno maggiormente da perdere se le dinamiche demografiche non cambiano. In questo contesto l’assegno unico universale per i figli, che parte a luglio per alcune categorie, va sicuramente nella direzione giusta: oltre al sostegno economico, infatti, saranno potenziati i servizi per l’infanzia (come asili nido e congedi di paternità), tutti strumenti che altri Paesi europei hanno da molto tempo”.

Servizi per l’infanzia: offerta accessibile?

“L’Istat mostra come i bambini sotto i 3 anni che frequentano una qualsiasi struttura educativa siano il 25,7%, un dato sensibilmente sotto la media europea (35,1%) e molto dietro a Francia, Svezia, ma anche Spagna, che superano il 50%. Influiscono sulle scelte delle famiglie i costi del servizio: il carico medio annuo che deve sostenere una famiglia per il servizio di asilo nido è passato da circa 1.570 euro nel 2015 a 2.208 euro del 2019”.

E’ debole anche la spesa sociale per i figli.

“L’Italia destina sistematicamente meno spesa sociale sulle politiche familiari rispetto alla media europea. I benefit per le famiglie con figli negli anni precedenti la pandemia sono stati ben sotto il 10% (8,3% nel 2018) della spesa per prestazione sociale nell’UE-27: una quota che varia da valori superiori al 15% in Lussemburgo a meno del 5% in Italia. In rapporto al Pil l’Italia nel 2018 presentava un’incidenza d’investimento sulla voce famiglia/figli dell’1,1% contro una media europea del 2,2%. Più alti i valori nei Paesi tradizionalmente o più recentemente attenti alle politiche di sostegno alle famiglie, come Francia 2,4%, Svezia 2,9%, Germania 3,3%. Federconsumatori ha pubblicato recentemente uno studio sui costi nel primo anno di vita nel 2019: mantenere un bambino nei primi 12 mesi ha un costo che varia da un minimo di 7.063,04 euro ad un massimo di 15.537,02 euro, con un aumento medio del +0,2% rispetto al 2018. Mentre diminuisce la spesa minima del -0,8%, la spesa massima aumenta invece del +1,2% rispetto allo scorso anno”.

Occupazione femminile, anche qui siamo sotto i parametri europei.

“Favorire l’occupazione femminile e renderla non solo compatibile ma positivamente integrata, per donne e uomini, alla libera scelta di avere dei figli, genera ricadute virtuose a livello individuale, familiare e collettivo. A livello di Paese, in quanto favorisce un aumento della natalità che va a contenere le cause degli squilibri demografici e risponde alle conseguenze degli stessi squilibri, rafforzando la forza lavoro. Riduce inoltre le diseguaglianze di partenza, perché i margini maggiori di miglioramento su occupazione femminile e rischio di povertà riguardano le famiglie delle classi sociali più basse. Le politiche che consentono non solo di conciliare, ma rendere leva positiva reciproca la scelta di avere un figlio e di lavorare, dovrebbero essere prioritarie”.

Un altro tema: il ruolo delle aziende per la conciliazione.

“Una letteratura scientifica consolidata mostra come il benessere dei dipendenti, non solo in termini di salute, tenda ad essere legato positivamente alla riduzione dell’assenteismo e all’aumento della produttività. Imprese e organizzazioni che investono in questa direzione hanno inoltre un vantaggio competitivo nell’attrarre persone con alte competenze e potenzialità che non vogliono rinunciare alla realizzazione in ambito familiare. Se sono cresciute nel tempo attenzione e sensibilità al tema, anche in Italia, questo tipo di pratiche aziendali continua ad essere meno sviluppato rispetto alle altre economie avanzate. In parte per una cultura della conciliazione non pienamente consolidata anche nelle grandi imprese (sono ancora troppi i datori di lavoro con impostazione novecentesca, che considerano tanto più alto l’attaccamento all’azienda quanto più il dipendente dimostra di sacrificare tutto il resto, anziché metterlo in sinergia positiva). In parte anche per la maggior presenza di piccole e medie imprese, che hanno più difficoltà a realizzare autonomamente tali pratiche. Da un lato, infatti, queste richiedono uno sforzo organizzativo e disponibilità a cambiare modelli consolidati con orientamento più verso i risultati che alla presenza, d’altro lato sono anche un’occasione di rinnovamento dei processi produttivi, ancor più importante a fronte delle trasformazioni accelerate dall’impatto della pandemia. Tutto questo ha bisogno di apertura alla sperimentazione, promozione del confronto, interscambio di buone pratiche, collaborazione con le istituzioni locali. Per le piccole e medie imprese, inoltre, non bastano gli incentivi fiscali, servono anche servizi di consulenza e accompagnamento, la possibilità di far parte di reti con accesso a piattaforme di Welfare condivise. Negli ultimi decenni è cresciuto molto il numero di donne che, soprattutto nel terziario, hanno avviato un’azienda creando lavoro per sé e per altre persone. Risulta però ancora più difficile per una piccola imprenditrice diventare madre e per una madre pensare di avviare e mantenere un’attività autonoma che cresce. Assentarsi dal lavoro per dedicarsi ai figli o delegare un sostituto in periodo di maternità è molto complicato. Oltre al miglioramento dell’offerta di servizi per infanzia e per la non autosufficienza, va ripensato, in generale, il trattamento sotto il profilo della tutela della maternità specificamente per chi ha un lavoro non alle dipendenze”.

Povertà (oggi 5,6 milioni), lavoro e denatalità: un circuito in tilt?

“Esiste una forte relazione tra età della persona di riferimento della famiglia e rischio di povertà assoluta. Questa relazione, registrata per la prima volta nel 2012, s’è rafforzata, consolidandosi nel tempo. Per tutto il decennio pre pandemia il rischio di povertà è stato quasi il doppio tra gli under 35 rispetto agli over 65 (nel 2019 rispettivamente attorno al 9 e al 5%). A essere lasciata esposta, quindi, a condizioni di vulnerabilità economica è proprio la fase in cui si è chiamati a mettere basi solide ai propri progetti di vita. Diventa allora un comportamento razionale rinviare tali scelte e rivedere al ribasso il numero di figli desiderati: se un giovane che esce dalla famiglia di origine per formarne una propria si trova in difficoltà economica, tenderà ad essere molto meno incoraggiato ad avere ulteriori figli ma diventa anche un esempio da non seguire per i coetanei (o più giovani) che stanno valutando se fare o meno tale scelta. L’altro dato di rilievo che caratterizza la povertà in Italia è proprio lo stretto legame con il numero di figli. Sempre i dati riferiti al 2019 mostrano come la povertà assoluta sia oltre il triplo per chi ha tre bambini rispetto a chi si ferma a uno (rispettivamente 6,5% e 20,2%). Se nelle famiglie c’è un anziano la povertà scende al 5,1%.Tutti gli indicatori di povertà e deprivazione sono peggiori per le classi di età più giovani: sono il 26,2% i bambini e ragazzi fino a 24 anni a rischio di povertà reddituale, contro il 15% degli anziani di 65 anni e più. Secondo i dati Eurostat, nel 2019 l’indicatore che combina povertà ed esclusione sociale (legato a severa deprivazione materiale) risultava pari a 22,5% come media dell’Unione con 5 Stati membri, inclusa l’Italia, attorno o sopra il 30% (gli altri quattro sono Romania, Bulgaria, Grecia e Spagna)”.

Resta problematica la sostenibilità del sistema pensionistico.

“La riduzione progressiva della parte economicamente vitale della popolazione pone la questione della sostenibilità del sistema pensionistico e più in generale della sostenibilità del sistema di protezione sociale nel suo complesso che ha alla base il patto generazionale, già messo in forte discussione dall’elevato debito pubblico. Per garantire la tenuta di lungo periodo, oltre al rafforzamento dei percorso lavorativi delle nuove generazioni e dei loro redditi, la strada da percorrere è una combinazione capitalizzazione individuale e ripartizione. Il pilastro pubblico obbligatorio ed il pilastro complementare devono essere sempre più connessi ed orientati a garantire più adeguati livelli di copertura”.