
Non può esserci una buona longevità senza adeguata lungimiranza. Non è possibile governare positivamente i cambiamenti demografici se non si adotta un orizzonte generazionale. Mancano 25 anni al 2050, il che significa che la metà di questo secolo non è un punto generico del futuro, ma il luogo concreto in cui andranno a vivere in età adulta gli attuali giovani e in età matura avanzata gli attuali adulti. E non c’è nessuna possibilità di vivere bene in tale luogo se i pochi 15-24 anni non si troveranno ad essere 40-49enni ben formati e ben inseriti nel mondo del lavoro, oltre a fare in modo che gli attuali 40-49enni arrivino nella fascia 65-74 attivi e in piena salute.
Nel rapporto Asivs di primavera 2025 dal titolo “Scenari per l’Italia al 2035 e al 2050. Il falso dilemma tra competitività e sostenibilità” si afferma che quantità e qualità degli investimenti, pubblici e privati, in infrastrutture non bastano, “come molti studi hanno messo in evidenza, la capacità di un’economia di svilupparsi e cogliere anche le opportunità delle transizioni, digitale ed ecologica, dipende anche dalla quantità e qualità del capitale umano di cui essa dispone”.
Questo, per le economie mature avanzate, è il secolo del declino della forza lavoro potenziale. La popolazione europea, secondo le stime delle Nazioni Unite, da qui al 2050 perderà il 15% delle persone in età 25-49 anni, il Giappone perderà il 20%, la Corea del Sud il 40%. Gli Stati Uniti manterranno la consistenza attuale solo con forte impulso dell’immigrazione, senza la quale potrebbero arrivare a perdere circa 20 milioni di persone al centro della vita lavorativa.
Fare in modo che il tasso di fecondità non rimanga troppo sotto i due figli per donna e governare i flussi migratori in modo efficace sono risposte utili per stabilizzare quantitativamente le basi demografiche. Ma queste azioni, pur indispensabili, non sono sufficienti a garantire sviluppo e benessere nelle prossime decadi. Cruciale è intervenire sul versante qualitativo attraverso la combinazione tra valorizzazione del capitale umano e opportunità della transizione digitale e verde. Le quattro sfide combinate dell’invecchiamento della popolazione, dell’immigrazione, dell’innovazione tecnologica, dell’impatto ambientale, non possono essere vinte se non si rafforza e promuove una quinta “i”, quella dell’istruzione.
L’Italia è tra i paesi in Europa che meno portano le nuove generazioni a raggiungere i più alti livelli nel percorso scolastico. L’Unione europea ha come target il 45% di persone con formazione terziaria (accademica e non accademica) entro il 2030. Il dato comparativo Eurostat fornito per il 2023 indica altri grandi paesi già oltre la quota di uno su due (come Francia e Spagna), mentre l’Italia si trova in coda (meno di uno su tre), battuta in negativo solo da Romania e Ungheria.
Questi valori bassi, che indeboliscono i percorsi delle nuove generazioni e il loro potenziale per lo sviluppo del paese, derivano da forti diseguaglianze sociali e territoriali che frenano la mobilità sociale e alimentano la mobilità verso l’estero. Come evidenziano i dati Istat, marcato risulta, in particolare, il legame con il livello di istruzione dei genitori. Quasi uno su quattro abbandona gli studi e solo 1 su 10 raggiunge il titolo universitario tra chi ha entrambi i genitori con al massimo la scuola dell’obbligo. Inoltre, se è vero che l’abbandono precoce degli studi è in diminuzione, rimane però più alto rispetto alla media europea (tra i 18-24enni l’incidenza è 10,5% contro una media UE pari al 9,5%).
I dati del “Rapporto giovani 2025” dell’Istituto Toniolo, appena pubblicato dall’editore il Mulino, evidenziano come i giovani in contesti socioculturali più svantaggiati non siano messi nelle condizioni di percepire la scuola come opportunità e risorsa per la loro vita, con conseguente demotivazione proprio tra coloro che potrebbero ottenere più vantaggio da una solida formazione. Tra gli intervistati nella fascia 18-34 anni solo il 37% indica che i risultati riflettono il vero talento degli studenti. Per due giovani su tre tra coloro che hanno abbandonato precocemente gli studi la scuola non ha offerto adeguate possibilità a chi proveniva da una famiglia con bassa estrazione sociale.
Nel già citato Rapporto Asvis vengono analizzati i dati della nuova indagine PIAAC-OCSE sulle competenze degli adulti (tra i 16 e i 64 anni). I risultati per l’Italia sono rimasti relativamente stabili su livelli bassi rispetto alla precedente rilevazione del 2012, a fronte di sensibili miglioramenti realizzati da molti altri Paesi. Secondo tale Rapporto i “risultati del secondo ciclo PIAAC confermano non solo che quelle sfide sono rimaste irrisolte, ma che in alcuni casi i problemi si sono aggravati. Senza interventi strutturali, il miglioramento registrato per le giovani generazioni da PIAAC rischia di andare perduto. È quindi assolutamente urgente e necessario un rilancio deciso delle politiche educative e formative lungo tutto il ciclo di vita delle persone”.
Qualche segnale positivo arriva però dalla fascia 16-24 che ottiene punteggi, in particolare sulla numeracy, più vicini alla media europea rispetto alla popolazione adulta. Fornire una solida formazione nelle età più giovani, ridurre i divari sociali e territoriali, promuovere il lifelong learning sono scelte strategiche fondamentali per non subire gli squilibri quantitativi dell’invecchiamento della popolazione e dare basi solide a una società della longevità competitiva e sostenibile.